Corriere della Sera, 23 dicembre 2021
Intervista a Gianfelice Rocca
È uno stranissimo tempo, questo. La pandemia ha rimesso in discussione tutto, modi di fare ricerca, di produrre, di tenere insieme pubblico e privato. E’ laureato in fisica, Gianfelice Rocca, prima di diventare presidente di Techint e di Humanitas. Saperi che aiutano in una fase come questa, nella quale è necessario ricombinarli, uscire dai silos: «Dove è completamente cambiato il rapporto tra salute ed economia. Pensi che nei documenti del World Economic Forum, pandemia non appariva neppure tra i rischi possibili. Prima di ogni ragionamento dobbiamo partire da che cosa è stata e che cosa è questa esperienza: un gruppo come il nostro, 70 mila persone nel mondo, 19 mila hanno contratto il Covid, 126 purtroppo non ci sono più. In tutti gli ospedali Humanitas 7.000 tra medici, infermieri, ricercatori, tecnici e staff sono in prima linea. Sono state effettuate oltre 550 mila vaccinazioni». I numeri: «E’ stato uno tsunami, la risposta dell’Italia è stata straordinaria. Vede questo grafico, tutti i letti blu sono diventati rossi in 2 settimane: nella fase acuta, ad esempio nei nostri ospedali di Bergamo, tutti i posti letto erano dedicati al Covid, ma successivamente siamo riusciti a prenderci cura anche degli altri pazienti. In 11 settimane abbiamo realizzato un ospedale Covid a Rozzano e poi un altro a Bergamo. I dati del Paese dicono che la pandemia ha portato al calo di un anno dell’aspettativa di vita a 65 anni. All’inizio l’adrenalina ha tenuto tutto, adesso che viviamo nella quarta ondata si ha più l’impressione di essere reduci. Bisogna puntare sul senso di resilienza ma avere il coraggio di rimettere in discussione alcune cose: serve una nuova governance pubblico-privato che consenta di trasformare l’Italia nella più grande start up al mondo. Capace di abbracciare il cambiamento al quale la pandemia ci ha costretto….»
Un cambiamento che però attraversa molti fronti, dal clima al digitale. Davvero lei crede che ce la possiamo fare?
«E’ vero, abbiamo davanti a noi quattro grandi temi: la pandemia, la transizione energetica, quella digitale e siamo nel pieno di un nuovo conflitto egemonico. Anche l’Europa con il suo progetto di Strategic Autonomy sta cercando una sua strada. Ma nella globalizzazione è come separare le molecole dell’acqua dal vino. Co2, dati, virus non hanno barriere, in un mondo senza frontiere è difficile separare le parti. A questo aggiungiamo una colossale liquidità che ha generato una sorta di infiammazione economico-industriale. Siamo passati dai servizi all’acquisto di beni fisici. Pensi alla logistica, i prezzi per far viaggiare un container sono cresciti di quattro volte. Ecco, questo è lo scenario».
E poi c’è la transizione ambientale, che sta modificando il modo di fare impresa….
«Mi lasci dire una cosa: la decarbonizzazione completa appare come un fine teologico, come il finale di una pellicola. Il fatto è che bisogna chiarire come ci si arriva alla fine del film. Bisogna costruire tappe, scene, non immaginare solo il gran finale. E qui l’Italia ha tutte le carte, per ricombinare i sapori e costruire nuove ricette di crescita in un mondo sempre più sostenibile anche dal punto di vista ambientale».
In questo contesto di transizione le scienze della vita possono avere un ruolo?
«Sono convinto che le scienze della vita possano essere un motore di crescita, capace di ricombinare il rapporto tra salute ed economia. Negli Stati Uniti valgono circa il 20% del Pil, in Europa circa il 12%. Dovremo prepararci ad eventuali nuove epidemie in futuro, all’invecchiamento della popolazione e a frontiere sempre nuove della tecnologica. Dalla medicina di precisione al sequenziamento del genoma, all’analisi dei sistemi biologici complessi. Ma bisogne rendere tutto questo più veloce, eliminando i colli di bottiglia nel rapporto pubblico e privato…».
Cosa andrebbe fatto?
«Nel welfare serve un nuovo contratto sociale».
Non le pare ambizioso
«Non è ambizioso, è necessario. In un ospedale, con le tecnologie attuali i medici si trovano a scegliere fra 650 processi di cura diversi, con la medicina di precisione diventeranno decine di migliaia. Come facciamo a rendere tutto questo accessibile al più alto numero di persone possibile? Questa è la sfida più grande. E non è un tema di colore della casacca, pubblica o privata accreditata, ovvero delle caratteristiche di chi dà un servizio pubblico, sia un ente religioso, non profit, for profit. E’ un tema di risposte da dare ai cittadini. La crescita del fondo sanitario è rimasta bloccata per anni, oggi assistiamo invece ad una sua crescita, cui si aggiungono la responsabilità e l’impegno del Pnrr che ha due missioni nel settore delle scienze della vita: sanità e ricerca. Ma la premessa di fondo dell’utilizzo proficuo sia del Pnrr, per sua natura trasformativo (sono risorse per cambiare), sia del fondo sanitario è la modifica della governance. Ora è divisa in silos, pubblico, privato, Stato, regioni, comuni. Con il grande paradosso: unisce i costi e le complicazioni burocratiche di un sistema centrale alla francese con i costi di uno Stato federale alla tedesca. È necessaria una partnership strategica per rendere più collaborativo e competitivo il sistema. È questa la vera sfida tra i continenti e l’Italia ha da giocarsi una partita partendo dai suoi leading hospital, gli Ircss».
Una delle fragilità emerse con la pandemia è stata la distanza dai territori: la sanità non è troppo ospedale-centrica?
«Il territorio, per dare risposte di qualità e innovative, ha bisogno di un rapporto culturale con i grandi ospedali. Il Pnrr può aiutare ad articolare questa relazione, ma i grandi ospedali resteranno sempre le “cattedrali” della conoscenza sanitaria grazie a quello che io considero il triangolo della conoscenza: clinica, ricerca, education. I dati del mondo reale che si generano negli ospedali. Serve un enorme sforzo, il cambiamento di molti profili. Medici sempre più tecnologici. Per questo qualche anno fa abbiamo creato il primo corso universitario Medtec. I nostri studenti vivono il clima del Politecnico di Milano e della nostra Università di Medicina strettamente integrata con l’ospedale in modo orizzontale. Se si guardano le curve di costo, vediamo che quello dei computer scende e quello della salute sta salendo. Ecco, come è accaduto per i vaccini, serve una nuova collaborazione tra ricercatori, regolatori, imprese. Noi stiamo realizzando un Innovation Building per l’insegnamento misto, start up, nel campus Humanitas University».
Il territorio, per dare risposte di qualità e innovative, ha bisogno di un rapporto culturale con i grandi ospedali. Al via il pro-getto di un Innovation Building
La ricerca in periferia…
«Se ci fa caso, la sanità più avanzata a Milano è sulle tangenziali. Un bel segnale di coesione. Ricerca e sanità possono essere trasformative per il territorio».
La transizione sanitaria però sembra quella più complicata.
«I cambiamenti hanno la stessa intensità della rivoluzione industriale. Sono epocali, ma possiamo giocarcela. Serve un’alleanza strategica, emulativa e competitiva, per migliorare avendo la qualità al centro. Siamo sul bordo di una colossale start up. Vedo un fervore di prendere le occasioni di questa transizione e le scienze della vita possono giocare un ruolo straordinario. Sa che le tariffe italiane sono un quinto di quella di medicare in Usa a fronte di qualità clinica elevata come emerge dai dati Agenas?»
Il nemico?
«Il giuridicismo burocratico. Quello che ci fa vivere i paradossi. A Catania abbiamo investito 100 milioni per un nuovo ospedale, ma per la logica dei tetti di spesa, il sistema di silos fa sì che ci siano situazioni in cui pazienti siciliani non possono accedere a strutture private di eccellenza in Sicilia e si trovano costretti a farsi curare da analoghe strutture in altre regioni. Con un grande spreco di risorse pubbliche. La logica del make (fare) or buy (comprare) va applicata con cura. Richiede una sofisticazione etica, giuridica, di competenze. Si può fare, trovando nuove ricette. Se non ci riusciamo, sarà il cittadino a pagare il prezzo più alto. Bisogna dare risposte ai bisogni, se i nostri pronto soccorso sono pieni vuol dire che la domanda di qualità è alta, questo è il cuore del welfare».
La transizione ambientale è centrale ma la decarboniz-zazione completa appare come fine teologico, bisogna invece vedere la road map
Non è troppo ottimista?
«Io sono ottimista, con i compiti a casa. Queste sono le sfide che ci consentono di avere i giovani con noi, pragmaticamente. Non solo con la visione etica del finale. L’Italia può mostrare il meglio di sé stessa. Se non parte, inciampa anche l’Europa. Ma basta guardarsi intorno per vedere che ce la possiamo fare».