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 2021  dicembre 23 Giovedì calendario

Ritratto di Edgar Morin

Negli ultimi anni, Edgar Morin ha traslocato più volte. A ogni nuovo libro, dava appuntamento per le interviste a un nuovo indirizzo. C’è stata la casa di rue Saint-Claude, nel Marais, sopra a vecchie tipografie, dove aveva vissuto a lungo con la moglie Edwige, poi quella di rue Vavin, nel sesto arrondissement, dopo il matrimonio con Sabah. «Ci sono ancora degli scatoloni», si scusava il filosofo dando la sensazione di un moto perpetuo, non solo intellettuale. A volte, preferiva ricevere nei suoi uffici del Cnrs, nel tredicesimo arrondissement. Il visitatore si trovava davanti a un gigantesco asino di cartapesta riportato dai suoi viaggi in America Latina, nei ruggenti anni Settanta, quando conviveva con la modella e attrice canadese Johanne Harelle. «Ci sono molto affezionato», confidava accarezzando il ciuccio spelacchiato, custode di chissà quali ricordi.
Una parte dell’anno è sempre in Marocco, il paese della moglie. Nei periodi in Francia, Morin ha deciso di trasferirsi a Montpel-lier, in cerca anche di un clima più mite, proprio lui, un titi, perfetto parigino, nato un secolo fa nella comunità ebrea sefardita di Ménilmontant. Belleville, l’«enclave del petit peuple», come si diceva allora, era un piccolo villaggio fiero e indipendente nel quale i vicini si parlavano dalla finestra, passandosi burro o pane in caso di necessità. C’era ancora qualche carrozza a cavallo, il latte si comprava al litro versandolo nelle bottiglie. Il giovane Morin imparava a ballare nelle sale della musette, leggendo i romanzi di avventura di Gustave Aimard, e scoprendo il cinema popolare di Marcel Pagnol e René Clair.
Ha avuto tutti gli onori. Più di quaranta università hanno nominato Morin dottore honoris causa. In Francia, ci sono già scuole superiori e centri di ricerca che portano il suo nome mentre in Messico esiste una sua statua e un’università dedicata al suo lavoro transdisciplinare. A luglio è stata organizzata una grande festa all’Eliseo per celebrare i cent’anni de «l’uomo-secolo», come l’ha definito Emmanuel Macron, venuto al mondo nei postumi della Prima guerra mondiale e dell’influenza spagnola, con una madre sopravvissuta per miracolo che però l’ha lasciato orfano quando aveva nove anni. «Quella morte è stata la mia Hiroshima» ha detto tante volte, facendo della sua vita una lezione di resilienza. E di resistenza, visto che la sua seconda famiglia sono le forze combattenti che lottavano contro l’Occupazione. È così che Edgar Nahoum per l’anagrafe diventa Edgar Morin, il nome di battaglia che poi terrà anche dopo la guerra. Impara a nascondersi, a comprare le soffiate, ad anticipare i movimenti della polizia. Un giorno sta raggiungendo Lione, per un appuntamento. Ha come un presentimento, decide di non andare. L’amico che l’aspetta viene catturato, torturato e ucciso. In clandestinità, conosce Violette Chapellaubeau, prima moglie e madre delle sue figlie Irène e Véronique. Il giorno della Liberazione entra a Parigi a bordo di un’automobile militare, sventolando la bandiera insieme all’amica scrittrice Marguerite Duras. Subito decide di partire per Baden Baden. Nel 1946, due anni prima del film di Roberto Rossellini, scrive L’Anno Zero della Germania, racconto di un paese in macerie, tentativo di capire come la nazione di Goethe e di Beethoven abbia potuto provocare la barbarie del nazismo.
Ha creduto nel Sol dell’Avvenire, e non lo rimpiange. Comunista durante la guerra, perché la priorità era la lotta contro il nazismo, ha scoperto poi le derive di un’ideologia totalitaria in tempo di pace. Nel 1951 viene definitivamente espulso dalla dirigenza del Pcf per aver criticato in un articolo il Gran Timoniere Mao Tse-tung. Il partito era diventato come una chiesa, ha spiegato. E se c’è qualcuno che non vuole finire ingabbiato in una qualche parrocchia è proprio lui. Morin ha scritto in quegli anni Autocritique, memorie di un ex comunista, genere destinato a fare proseliti, in Francia e non solo. Di Karl Marx, al quale ha dedicato un piccolo saggio, dice che è stato un formidabile profeta della globalizzazione capitalista, ma non ha visto che l’homo faber, l’uomo produttore, era anche l’homo economicus, e che l’homo sapiens era anche l’homo demens, la follia umana che si manifesta in tutta la storia dell’umanità.
Nessuno meglio di lui ha saputo fiutare L’Esprit du Temps, lo spirito dell’epoca, titolo di un suo studio del 1962. Ha battezzato negli anni Sessanta la generazione “yé yé”, i ragazzi dipendenti dal consumismo, nel 1993 ha pubblicato un pamphlet sulla Terra-Patria prima che l’ambientalismo diventasse una moda, ha previsto il ritorno dei nazionalismi e della xenofobia in Europa. A cavallo di tutte le frontiere, del pensiero ma anche dei paesi e delle lingue, praticando all’estero il fritagnol.
«Un misto di francese, italiano e spagnolo che appartiene solo a lei» ha osservato Macron nel suo omaggio all’Eliseo. Morin si definisce soprattutto come «umanista». E a chi gli chiede il segreto della sua longevità non offre ricette, anche se gli amici che lo frequentano si domandano cosa sia il cocktail di vitamine ed erbe mandate dall’America Latina che prende ogni giorno. Se un segreto esiste, è forse quello della sua inesauribile curiosità. Sempre un libro in corso, un viaggio da progettare, un pensiero da convidivere come fa anche su Twitter. Penso, dunque vivo.