Ernesto Leva, 57 anni, direttore del dipartimento di Chirurgia pediatrica dell’ospedale Policlinico di Milano, come tutti i medici cerca di mascherare le emozioni, ma si vede che gli brillano gli occhi quando parla di Lorenzo, il bambino “super piuma”, nato a cinque mesi di gestazione e solo 370 grammi di peso.
Che cosa vi ha insegnato questo piccolo che avete salvato con due delicati interventi all’intestino?
«I bambini ci dimostrano che bisogna sape vedere le cose da un altro punto di vista».
Cioè?
«Quando ho conosciuto i suoi genitori, due trentenni, noi medici temevano il peggio. C’era stato il parto molto prematuro, la complicanza dell’intestino perforato. Un caso difficile».
E invece?
«Lui ha fatto capire subito che voleva vivere a tutti i costi».
La mamma e il papà che cosa vi chiedevano?
«Erano molto preoccupati. Noi abbiamo spiegato che la situazione era complessa e che però in un ospedale come il nostro c’è l’esperienza per gestire questo tipo di casi. Noi curiamo circa 60-70 prematuri “piuma” sotto il chilogrammo e mezzo all’anno, 150 i neonati che operiamo all’anno. Ma questo era davvero il più minuscolo .
E ho lavorato tanto anche all’estero, in Sudafrica, America, Regno Unito».
Stava in una mano, Lorenzo?
«Ecco, sì, quella era la misura».
E come si fa con un esserino così piccolo?
«Lo si può toccare con la punta delle dita, i tessuti sono fragili. Loro si muovono, sono esseri viventi con tutti gli organi».
Che cosa avete fatto?
«Nelle prime settimane assieme al collega Francesco Macchini abbiamo fatto un intervento con un drenaggio per favorire l’uscita del materiale fecale. E poi siamo rimasti in attesa, perché di solito i neonati così fragili non riescono a superare situazioni tanto complesse. Ma Lorenzo non aveva alcuna intenzione di morire».
Quindi?
«Ha superato le infezioni causate dalla perforazione intestinale, sono passate due settimane senza le complicanze cerebrali o polmonari che di solito si sviluppano dopo questi interventi su creature così fragili. Si è stabilizzato».
Avete capito in quel momento che era salvo?
«Con questi piccoli la prima cosa è saper aspettare, non correre. Lo abbiamo nutrito artificialmente fino a quando non abbiamo potuto cominciare a dargli le prime gocce del latte della sua mamma, Elena».
È riuscita a farsi venire la montata nonostante il parto a 16 settimane dal termine?
«Certo, in Mangiagalli, la clinica ostetrica del Policlinico, abbiamo la Banca del latte. E lei, come tutte le mamme della Patologia neonatale, veniva e lo accudiva ogni giorno. Lei e il papà se lo potevano mettere addosso, sulla pelle, la kangoroo-terapy favorisce la crescita. Abbiamo lavorato in team col collega direttore della Neonatologia, professor Fabio Mosca, e c’è stata una grande emozione man mano che prendeva peso. Anche i nostri specializz andi hanno seguito questo caso con grandissima attenzione».
Quando avete capito che ce l’avrebbe fatta?
«Abbiamo fatto un secondo intervento delicatissimo di canalizzazione dell’intestino, con il sostegno del team degli anestesisti dedicati ai pazienti più piccoli, coordinati da Giuseppe Sofi, direttore dell’anestesia e terapia intensiva donna–bambino. Due interventi “estremi”, casi unici anche nella letteratura medica. Ma ce l’ha fatta anche stavolta».
Perché unici?
«I polmoni di questi bimbi sono così piccoli che nemmeno riescono a piangere, bisogna cogliere il momento gestazionale giusto in cui il loro corpo sia in grado di reggere l’anestesia. Lui lottava e noi tutti facevamo il tifo per lui, dallo studente più giovane ai primari con più esperienza».
Quando avete deciso che poteva essere dimesso?
«Un passo alla volta con questi bambini. La mamma e il papà venivano sempre, le infermiere quando non c’erano loro facevano da seconde mamme e gli infermieri da secondi papà. Dopo il primo mese, respirava da solo, senza bisogno di aiuti. Abbiamo capito che le cose andavano bene. A ottobre e novembre ci siamo dedicati a farlo crescere».
Mamma e papà a quel punto si erano tranquillizzati?
«È stato un bellissimo percorso collettivo sia per loro, che per noi.
Dopo dieci giorni dal secondo intervento ha cominciato a scaricare autonomamente».
È stato dimesso da una settimana.
Come vi siete lasciati?
«C’era e c’è una grande empatia fra noi e questa famiglia. Lorenzo adesso pesa tre chili, è a casa, ma sempre collegato con la nostra Neonatologia. Ci sembra che vada tutto molto bene, non dovrebbero esserci danni cerebrali».
Che cosa le resta?
«Questo bambino ha fatto crescere l’amore per il mio lavoro. Queste storie ti insegnano che facciamo una professione meravigliosa. E che nella vita bisogna crederci e avere fiducia quando ci si trova in situazioni anche molto complesse».