Linkiesta, 23 dicembre 2021
Ridateci per favore il fascino di Baricco
In tutte le case in cui ho tenuto uno spazzolino da denti tra i venti e i trent’anni, c’era un pannello di compensato, che oggi si chiamerebbe mood board e allora era solo un qualcosa su cui appiccicare le cose che mi piacevano; le cose che mi piacevano allora erano solo cose che mi piacevano: adesso sarebbero ispirazioni, essendo nel frattempo sopraggiunto il diritto costituzionale di percepirsi tutti artisti.
Elenco non esaustivo delle cose lì appiccicate: un articolo di Cosmopolitan americano intitolato Why you’re fat and I’m not; una foto di Carla Bruni nuda, scattata da Helmut Newton; una foto di me nuda, scattata da una compagna di liceo; una pagina di Panorama in cui Michele Serra criticava le generalizzazioni dei giornali («L’Italia impazzisce per Beautiful: si vede che non sono italiano»); una pagina dell’Espresso in cui Umberto Eco raccontava i coccodrilli di Greta Garbo; una vignetta di Pericoli&Pirella in cui Fulvia diceva «Quando l’altra volta ha vinto Berlusconi volevo fuggire dall’Italia. Poi ho comprato un appartamento a Parigi. Se vince anche questa volta mi compro un loft a Manhattan. Gli errori della sinistra mi stanno costando una cifra»; una recensione di Seta, il romanzo di Baricco, il cui eloquente incipit era «nel mattino in cui scrisse Seta».
Ho avuto vent’anni negli anni Novanta, il che significa alcune cose. Che c’importava più d’essere magre che d’essere di qualsivoglia orientamento sessuale o identificazione postmoderna. Che sui giornali scriveva gente che se fai il confronto con oggi ti metti a piangere. Che la sinistra si concedeva il lusso di prendere per il culo la sinistra. Che le devote si concedevano il lusso di prendere per il culo i loro santini. E che Alessandro Baricco era un semidio.
Lo dico da abbastanza atea (credo d’aver letto un suo solo libro, e dico «credo» perché aver avuto vent’anni negli anni Novanta significa averne cinquanta oggi e non ricordarsi quasi neanche come ci si chiama, figuriamoci cosa si è letto): Baricco che compariva in televisione a spiegarti una frase di Proust era una cosa che non si era mai vista prima e non si sarebbe mai più vista dopo.
Ho avuto molte fortune nella vita, e una delle più grandi è stata frequentare, negli anni in cui ero ancora in grado d’imparare cose, Bruno Voglino, che se non sapete chi è andatevi a studiare la storia della televisione invece di perder tempo con me. Una volta gli chiesi la ragione del successo di Pickwick (era il programma che conduceva Baricco quando io avevo la fortuna d’avere ventun anni). Mi disse: è che compare con quella fisicità da centravanti di sfondamento, e poi si mette a parlare di letteratura; è il contrasto fra l’aspetto e l’eloquio che lo fa diventare incantatore di serpenti. (Credo che oggi un anziano dirigente Rai non potrebbe usare con una ventenne l’espressione «centravanti di sfondamento» senza venire accusato di microaggressione).
Ancora oggi, il mio modo preferito di bullizzare i ventenni è ricordare loro che, nel ruolo nel quale i miei tempi schieravano Baricco, i loro schierano Massini.
Tutto questo per dire che io oggi avrei voluto scrivere della copertina del New York Magazine. Della mancanza di punti di riferimento per cui una volta avevamo delle certezze – se uno insegna all’università non è analfabeta, se una cosa viene pubblicata sul New Yorker non è una cialtronata, se chiudono le scuole in inverno vuol dire che è nevicato tantissimo – e ora non ci si capisce più niente, è andato tutto a puttane: in uno dei settimanali che abbiamo passato la vita a stimare, sul giornale sul quale scriveva Tom Wolfe, mettono in copertina un transessuale con un racconto dal quale sembra che farsi togliere un pezzo di coscia per farne un bigolo sia una roba normale e anche lieta, e nel giro di mezz’ora saltano fuori cento articoli vecchi che dimostrano che, in confronto al tizio in copertina, il matto di piazza Barberini era sano di mente.
Mi sento come Larry David in quella scena di Curb Your Enthusiasm – ormai unico editoriale attendibile sul presente – in cui s’incazza perché il concierge gli ha suggerito un ristorante cattivo e «gli americani non possono più avere fiducia nelle istituzioni, nei politici, nei preti, nella polizia: se neanche più nei concierge, cosa ci resta?»; e insomma, se neanche i grandi giornali che andavamo a comprare all’edicola internazionale si occupano più di verificare le storie che pubblicano, se neanche gli psichiatri si occupano di controllare che per la gente che curano scarnificarsi una coscia sia la cura giusta, se non ci sono credenziali che ci assicurino che i professionisti sanno fare il lavoro che fanno, cosa ci resta da appiccicare sui nostri pannelli di compensato?
Ma ora non posso scriverne, magari domani: oggi la mia attenzione è stata deviata da Domus, che pubblica le foto della casa di Baricco, e se avessi vent’anni strapperei le pagine e le spillerei vicino alla foto in cui Carla Bruni senza mutande sta seduta in braccio all’anziano padre.
Perché la biblioteca di casa Baricco è proprio la biblioteca che avrebbe fatto sdilinquire la me ventenne, quella che riempiva gli Adelphi di puntesclamativi di fianco alle citazioni citabili.
Non parlo dei libri (mica sono così superficiale da valutare un intellettuale dai libri che legge); parlo di quella che dalle foto pare la principale libreria di casa Baricco, quella del di lui studio, descritta nell’articolo dalla sua convivente (moglie? Non fatemi dire «compagna», per me se si hanno gli spazzolini nella stessa casa si è moglie e marito, che si siano buttati o no soldi in banchetti di nozze in cambio di cornici d’argento).
La libreria (in un punto di verde strepitoso: è sempre bello quando i santini della tua giovinezza reggono all’esame del gusto della te adulta) ha, neanche fosse il mio pannello di compensato, un’iscrizione. Ricopio dall’articolo: «Questa stanza con tanto di mappamondo e divanetto in velluto rosso è incorniciata da una frase del Giulio Cesare di Shakespeare che ne percorre il perimetro. È la frase che Pompeo disse prima della battaglia che decide della sua vita contro Cesare; dipinta sulla libreria verde bosco, prosegue Gloria, “è una frase molto amata da Sandro”. In Asia, davanti alla piana dove combatteranno, Pompeo dice: “Ah! Se fosse dato all’uomo di conoscere la fine di questo giorno che incombe. Ma basta solo che il giorno passi e la sua fine è nota”. Alessandro Baricco ama queste parole perché riescono “a dare alle cose la loro dimensione, le trova rassicuranti nei momenti di incertezza; proviamo ansia per il fatto di non sapere cosa stia per accadere, come andrà a finire. E invece Shakespeare ci mette di fronte al fatto che alla fine del giorno quel giorno sarà come un sasso su un tavolo, immodificabile. Sarà un giorno. E questa consapevolezza la avremo subito, domani. Ecco, questa frase riesce a ridare una giusta prospettiva delle cose e ha trovato il suo posto, a rassicurare tutti coloro che la leggono”».
Quindi, come io a quindici anni scrivevo con l’uniposca sui poster in cameretta «se guardi nelle tasche troverai gli spiccioli che ieri non avevi, ma il tempo andato non ritornerà», Baricco s’è fatto scrivere sulla libreria di sessantenne che l’oggi dov’è andato, l’ieri se ne andrà.
Vorrei chiedere perché, frate Indovino per frate Indovino, non abbia fatto scrivere qualcosa sulle mezze stagioni o sulle gatte al lardo, ma non lo farò. Sono venuta a lodare la mia giovinezza, mica a seppellirla.