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 2021  dicembre 22 Mercoledì calendario

La generazione delle non madri

In Italia nascono sempre meno figli e non è una novità. La Grande Recessione prima, la pandemia poi, hanno dato il colpo di grazia a una fecondità che già arrancava. Ma se in passato il passaggio cruciale era tra il primo e il secondo figlio, che faticava ad arrivare, ora sono molte le donne che concludono la loro storia riproduttiva senza essere diventate madri.
È quanto emerge dal recente report Istat sulla fecondità nel 2020. Se tra le nate degli anni 60 e 70 circa il 20% delle donne non ha avuto figli, si stima che tra le nate negli anni 80 ben un quarto non ne avrà. Eppure, l’Italia rimane il Paese del mito della maternità. È qui, infatti, che sono forti le pressioni per raggiungere un ideale materno di perfezione che fa coincidere nel pensiero comune di molte persone la realizzazione personale femminile con la maternità, o che le donne vengono ancora spesso considerate le regine del ruolo di cura, o che i modelli familiari paritari sono ancora poco diffusi.
Il 51% del campione italiano dell’Eurobarometro 2014-2017 pensa che il ruolo più importante per una donna sia quello di prendersi cura della casa e della famiglia. Secondo i dati del rapporto WeWorld 2018, un terzo del campione italiano ritiene che l’autorealizzazione di una donna passi per l’avere dei figli: “La maternità è l’unica esperienza che consente a una donna di realizzarsi completamente”. È difficoltoso in un contesto così sbilanciato, in cui quando nasce un figlio la cura ricade in maniera quasi esclusiva sulla madre, o comunque sulla linea femminile della famiglia, e in cui l’essere madre compone ancora una parte identitaria così forte del proprio sé, non aderire a questo modello. È difficoltoso per quante decidono che la maternità non debba far parte del proprio percorso di vita, le childfree. Si tratta di donne che non vedono la maternità come obiettivo, non è una tappa del loro progetto di realizzazione di sé. Non necessariamente sono donne esclusivamente orientate al lavoro, ma, anzi, attribuiscono ai figli una necessità di un grande investimento in termini di tempo ed energie. Si tratta di una posizione, quella delle childfree, che in alcuni casi è rinegoziata nella vita, sulla base delle esperienze e dei percorsi.
L’accusa che queste donne devono subire è di egoismo, in quanto la maternità è ancora talvolta concepita come una missione collettiva, in una visione che tra l’altro collide con il carico poi individuale della cura del figlio, in un Paese che non offre, a oggi, sufficienti servizi di cura all’infanzia, ma in generale un welfare della famiglia che sostenga la genitorialità. Di queste donne si parla sempre più spesso, almeno nei media: cercano un dovuto riconoscimento e una comprensione della loro libertà di posizionarsi in un tema così delicato. Nonostante questa urgenza di riconoscimento in una società che nelle sue dimensioni sociali, spinge e urge, con pressioni più o meno velate verso il mito della maternità, la quota di donne childfree in Italia è ancora limitata. Secondo i più recenti dati Istat, Famiglie e Soggetti Sociali 2016, la percentuale di donne di età compresa tra i 18 e i 49 anni che dichiarano di non voler avere un figlio nei successivi tre anni perché non rientra nel loro progetti di vita, è sotto il 2% del campione totale.
Diverso è il percorso di chi, pur desiderandolo, non diventa madre. L’Istat nel suo report sulla fecondità attribuisce il calo dei primi figli alla prolungata permanenza nella famiglia di origine, dovuta a tre dimensioni: la prima è legata al protrarsi dei tempi della formazione scolastica. Di fatto, pur avendo tra le percentuali più basse di laureati in Europa, la quota di giovani con formazione terziaria, e che quindi rimanda le tappe successive del percorso di crescita, è aumentata nel tempo. La seconda dimensione riguarda il lavoro: le difficoltà giovanili nell’ingresso nel mondo del lavoro si protraggono, e la diffusa instabilità delle carriere, insieme a stipendi non adeguati, non creano le condizioni per la nascita di figli. Anche l’incertezza abitativa, infine, ha un peso, legato alle difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni. Ad acuire queste complessità ci sono state la bassa crescita economica, e poi la pandemia.
L’Istat fa riferimento, poi, genericamente ad altri motivi di ordine culturale. Laddove la cura non è equidistribuita tra uomini e donne, questo condiziona il percorso femminile verso la fecondità, per il sovraccarico di energie che ci si attende di dover dedicare ai figli, a discapito degli altri ambiti di vita. Così come la percezione dell’incertezza e dell’instabilità, e non solo le concrete condizioni lavorative, hanno un peso. La lotta continua nel mondo del lavoro ancora discriminante, poi, potrebbe giocare un ruolo e spostare il focus degli obiettivi. La fluidità delle relazioni, la precarietà della vita in molti ambiti spesso non creano le condizioni perché si arrivi presto nella vita a scegliere di avere un figlio. Quando si giunge a questa decisione le rinunce rispetto alla vita “di prima” sono molte.
Più ampia, dunque, e forse ancor più dolorosa, è la strada di quante vorrebbero avere figli, ma non diventano madri. Iniziare a cercare un figlio oltre i trent’anni (l’età media alla nascita del primo figlio è di 31,4 anni, quella alla nascita in generale è di 32,2 anni, cresciuta di un anno nell’ultimo decennio), significa incorrere in difficoltà di fertilità, significa essere più a rischio di aborto spontaneo, impiegare più tempo a concepire, dover talvolta intraprendere il percorso della fecondazione assistita o quello dell’adozione. Tutte vie tortuose e non necessariamente a buon fine. Quando questi tentativi hanno successo le donne arrivano alla meta sfinite, quando non vanno a buon fine, arrivano sfinite e deluse, mentre il resto della vita va avanti, a colpi di lotta tra tutte le altre precarietà.
È una generazione, quella delle non madri, di donne stanche. Quelle che non hanno avuto figli per scelta devono ancora lottare per essere accolte. Quelle che ne volevano devono elaborare l’accettazione del mancato raggiungimento di un obiettivo di vita, che la società persiste a considerare come fondamentale. È un paradosso, però, che questo mito della maternità coesista con un crescente numero di donne che madri non sono, ma forse un paradosso che contribuisce ad alimentare il mito.