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 2021  dicembre 22 Mercoledì calendario

Cosa resta di Carlo Bo

Si rimane impressionati, ripercorrendo il lunghissimo arco critico e civile di Carlo Bo, da alcuni elementi che ce lo fanno apparire molto lontano dalla nostra condizione attuale eppure, anzi proprio per questo, necessario. Una lontananza maturata già in vita, lentamente, tanto più straordinaria per un intellettuale che nel presente era sempre intervenuto a suo modo, vivendo le amicizie e gli eventi con esemplare, quasi ostinata partecipazione, anche quando si imponeva la «poetica dell’assenza» come solo modo di stare nel mondo. Il giorno dopo la sua morte, avvenuta il 21 luglio 2001, Giovanni Raboni, sul «Corriere della Sera», evidenziò con la consueta lucidità la zona di oscurità dietro il «monumento» che era stato eretto al critico militante, pensatore, saggista, moralista divenuto senatore a vita, rettore, presidente di innumerevoli premi, enti e fondazioni: l’«insanabile sfiducia in un tempo, in un clima, in una società che non sentiva più come suoi, ai quali sentiva di non appartenere più». Sarà stato l’effetto corrosivo della vecchiaia, a cui Bo fa riferimento in diverse interviste degli ultimi anni? Certo, anche l’età avrà contribuito con le sue ragioni impalcabili: «Il silenzio è allora un silenzio obbligato, il modo più decente per uscire di scena», scrive nel 1988 commentando il famoso De senectute di Norberto Bobbio. 
Tuttavia, in un intervento di poco posteriore lo stesso Bo chiariva, al di là del suo proprio status anagrafico, il fatto indubitabile che sotto i suoi occhi la realtà non solo era cambiata ma si era pressoché rovesciata: «I poteri del singolo sono sempre più limitati e ridotti e pure per moltissimi anni ci eravamo illusi di potere intervenire, di far valere le nostre parole, le nostre professioni di fede, purtroppo tutto quanto si era ipotizzato di colpo è svanito e sul tappeto ha ripreso a giuocare la forza…». Bilancio amaro di un fallimento, stilato, emblematicamente, nei giorni più tragici della prima Guerra del Golfo, che si presentava come una resa dei conti e un cambio d’epoca definitivo. Le speranze e le illusioni, che pure erano state alimentate da un’intera generazione di intellettuali persino sotto la cappa del fascismo, dovevano ora dirsi per sempre naufragate. E ciò valeva al di là della vecchiaia che incombeva o della contingenza bellica drammatica.
Bisognerebbe radiografare con attenzione l’uso dei pronomi personali e dei possessivi, nella prosa di Carlo Bo, di cui Gianfranco Contini segnalava la «natura effusa». Ma anche a uno sguardo tangenziale ci si accorge che negli scritti giovanili il «noi» prevale di gran lunga sull’«io», e non si tratta di un plurale maiestatis ma dell’ampio riconoscersi in un lavoro d’insieme e in un comune sentire. Al di là delle valutazioni sui contenuti della critica, delle cronache, dei resoconti di Bo, è questo insistito segno di appartenenza a colpire oggi, l’idea originaria che chi scrive lo fa anche a nome di una comunità di coetanei, di una società di amici che comprende il lettore e qualche volta si allarga al più ampio perimetro nazionale, ovvero alla collettività di un «noi italiani» e a tratti europeo, come ha osservato Jean Starobinski. 
Anche quando Bo segnala un vuoto, il grande vuoto in cui sotto il fascismo agiva la generazione degli ermetici, risulta sempre fermo che a tale vuoto si cercò di rimediare con la coesione e la condivisione ideale del gruppo. E questo modo di procedere insieme rimane un modello che Bo non si stanca di additare a futura memoria. «Si trattava – ricordava in un’intervista del 1997 – di una sorta di lunga conversazione che si svolgeva attraverso i giorni, attraverso i mesi. Ha avuto grande importanza appunto il sentimento dell’amicizia questa, chiamiamola pure, comunione d’intenti, di simpatie, ma naturalmente, ognuno con le sue scelte, con le sue diversità».
È il primo autentico e radicale cambiamento avvenuto sotto gli occhi del letterato: il passaggio dall’epoca del gruppo al tempo del singolo, dal «grido unanime» all’urlo nel deserto. La solitudine è la condizione storico-antropologica dell’intellettuale che avendo vissuto la stagione del dialogo non può non evocarne amaramente, dolorosamente la straordinaria fertilità e l’attuale mancanza. Pagine abbaglianti, a proposito di questo comune sentire, sono quelle che riguardano l’amicizia tra Oreste Macrì e Piero Bigongiari, ma non solo: «Firenze ha consentito questo coagulo di ambizioni e di speranze, è stata un simbolo e chi ha passato da spettatore quegli anni non stenta a ricordare quella grazia di partecipazione, quella forma di consenso che soltanto la fede nella poesia autorizzava. Non si tratta di verificare i risultati, vedere che cosa e quanto di quella storia sia stata attuata, il problema è un altro e investe la condizione stessa di quella vita; diciamolo pure, di quella religione».
Religione. La letteratura, come la religione, per il cattolico giansenista Bo non conosce mezze misure: richiede una devozione assoluta che spinge a inoltrarsi nelle domande fondamentali dell’esistenza. Perché il sentimento di comunione, formulato nel celebre saggio-manifesto giovanile che nel 1938 fonda la «letteratura come vita», vale non solo verso l’esterno, tra individuo e individuo, tra autore e critico, ma si irradia all’interno, cioè nei confronti del testo. Se proviamo a registrare le parole ricorrenti che accompagnano e puntellano i saggi di Bo, non sarà difficile individuare lemmi come verità, responsabilità, vocazione, spirito, religione. 
Troviamo qui, ben delineati, il percorso e le ragioni che avvicinano Bo a modelli come Renato Serra da un lato con la sua «critica come esame di coscienza» e Sainte-Beuve dall’altro. Così, riconosciamo le questioni che lo tengono distante da Croce e da ogni sorta di storicismo e positivismo. E soprattutto nelle pagine sul rapporto tra letteratura e società, su letteratura e crisi di valore, sul ruolo dello scrittore, riscontriamo quanto Bo ci possa apparire estraneo ma al contempo inaspettatamente utile e si direbbe urgente. Urgente in modo speciale per gli interrogativi verso cui ci proietta, tanto irrinunciabili quanto ormai generalmente sottaciuti o considerati banali e persino superflui, sulla letteratura intesa come «condizione» e non come «professione». 
Si può anche esprimere dissenso sull’idea di «purezza» svincolata dal tempo, ma c’è comunque materia su cui riflettere in un tempo come il nostro di generale relativismo mercantilista anche in ambito letterario. Nel tracciare una «linea di confine implacabile» al di qua della «giostra delle ambizioni e delle illusioni» editoriali, Bo scriveva: «tutti possono scrivere un libro ma sono rarissimi quelli che non possono fare a meno di scriverlo». Per non dire della franchezza visionaria con cui poneva questioni cruciali sin dagli anni Cinquanta sull’imperio assoluto del mercato (sia pure con accenti che oggi possono suonare eccessivamente enfatici ma non senza qualche sfumatura ironica): «L’idea di allevare degli scrittori come si allevano dei cavalli da corsa è un’idea tipica del nostro tempo e può darsi che in società più progredite verso la noia e la ripetizione, verso la mimetizzazione assoluta nel grigio dia risultati ottimi…».
Una tale prospettiva non può che comportare un’aspra critica verso le astuzie e le «invenzioni» dell’industria culturale, le «abilità» funamboliche o autoironiche del letterato postmoderno e tanto più verso i meccanismi che finiscono per alterare o per adulterare il senso della letteratura quale «unica ragione di essere». Dunque, non dobbiamo stupirci se troviamo nel «borghese» Carlo Bo (l’aggettivo è di Gianfranco Contini) due elementi oggi rarissimi, per quanto orientati a loro modo e cioè verso la costante ricerca di una verità spirituale: da una parte la nettezza nell’esprimere un giudizio di valore sull’opera (anche con i fraintendimenti e le idiosincrasie che può naturalmente comportare una ferma e sincera presa di responsabilità); dall’altra la severa polemica nei confronti della ricerca del consenso, cioè di una macchina che spaccia per qualità letteraria l’oggetto da supermarket.
È evidente che anche nelle recensioni e negli interventi più occasionali (in ambito francese e spagnolo oltre che italiano) si impone un discorso altro, come un principio superiore che permette di leggere oltre l’opera per addentrarsi nell’«anima» dello scrittore e quindi dell’uomo, opponendosi a qualsiasi attitudine di stampo formalistico; rivendicando un’autonomia della letteratura rispetto alla storia e alla società, e insieme rifiutando ogni suo desiderio di estraneità rispetto all’esistenza individuale. È stato sempre Raboni a vedere in questa tensione contraddittoria il grande pregio di Bo, critico e intellettuale, presente insieme nella letteratura e nel mondo: «Questo era, questo ci parve, negli anni confusi e meravigliosi del dopoguerra, l’insegnamento di Bo: che la letteratura bastava e, nello stesso tempo, non bastava a sé stessa; che la sua “autonomia” era, nello stesso tempo, un valore da difendere a costo della vita e una finzione da smascherare con qualsiasi mezzo; e che si poteva, forse si doveva essere, contemporaneamente – come lo stesso Bo, in effetti, era, e sempre più si sarebbe dimostrato – un adepto della poesia “pura” e uno che cerca altrove (nell’interrogazione morale, nella ricerca religiosa, magari nelle scelte d’ogni giorno) il senso e la misura del proprio esistere».