La Stampa, 22 dicembre 2021
Dodici indiani nella Silicon Valley
Sundar Pichai viveva in un modesto appartamento di due stanze a Madras (oggi Chennai) e dormiva in salotto insieme al fratello. La sua famiglia non aveva un televisore e nemmeno l’automobile. Il padre lavorava alla General Electric Company. Ogni sera tornava a casa e parlava al piccolo Sundar del suo impiego, le sfide quotidiane, i numeri che doveva mescolare per trovare il risultato giusto.
Sundar si diplomò in ingegneria alla IIT Kharagpur. Era «il migliore del mazzo» ha raccontato al Times of India uno dei suoi professori. Vinse una borsa di studio per Stanford, California. Il padre mise insieme un gruzzolo – del valore di un anno di stipendio – per fargli prendere il volo per gli Stati Uniti dove nel 2004 entrò a Google, la creatura fondata nel 1998 da Larry Page e Sergey Brin.
La storia del 49enne attuale numero uno di Alphabet, la società che dal 2015 controlla Google e le sue attività, non è tanto diversa da quella di migliaia di indiani sbarcati negli anni ’70 e ’80 negli Stati Uniti. Da ricercatori brillanti sono diventati il motore e i chief executive – di start up e di grandi aziende. Microsoft, Twitter, Intel, Vimeo, Adobe affidano i conti e lo sviluppo delle loro compagnie agli immigrati indiani. Un’indiana ha frantumato il soffitto di cristallo a Facebook, diventando a 23 anni nel 2005 la prima ingegnere donna della creatura di Zuckerberg.
E’ un successo che viene da lontano. Il pioniere della «Road to America» fu Ajay Bhatt, il padre dei protocolli USB e delle chiavette. Nato nel 1957 e diplomatosi alla Maharaja Savajirao University di Baroda prese il master alla New York University e nel 1990 entrò alla Intel di cui divenne il capo del team degli innovatori garantendo al gigante dei processori ben 31 brevetti.
Attualmente sono 4 milioni gli indiani negli Stati Uniti (meno dell’1% della popolazione) ma sono fra i più ricchi ed istruiti. Circa un milione sono ingegneri e scienziati. Oltre il 70% dei visti H-1B (i permessi di lavoro rilasciati in alcuni ambiti specifici come tecnologie e medicina) sono rilasciati a ingegneri informatici di New Delhi che si dividono fra Seattle e la Silicon Valley dove rappresentano il 6% della forza lavoro.
E sono sempre più nelle posizioni di vertice. Nel 1999 i Ceo stranieri delle Corporations americane erano appena il 7%; nel 2006 gli indiani nei consigli di amministrazione a Silicon Valley erano il 15,5%, oggi dodici big company sono guidate da indiani.
I numeri non bastano a spiegare il perché i figli della più grande democrazia del Pianeta con in mano una borsa di studio per un master e un biglietto di sola andata per gli States sono riusciti a diventare il motore dell’industria tecnologica americana e gli inventori delle maggiori start-up.
Vivek Wadhwam ricercatore e co-autore di un volume su come le grandi società si stanno riorganizzando attorno a nuove figure di leadership, ringrazia il sistema di visti americano che privilegia le competenze in materie come matematica, scienze ed informatica. Ma la forza degli indiani sta - è la sua tesi - nel viver e respirare sin da bambini le contraddizioni di una società ingiusta, divisa in caste e profondamente diversa con ventidue lingue, un mosaico di tradizioni e di etnie e di applicare questa capacità di adattamento al ruolo di manager. L’ex direttore esecutivo di Tata Sons e autore di The Made in India Manager R Gopalakrishnan sintetizza così: «Dalla richiesta di un certificato di nascita, all’ammissione in una scuola sino alla ricerca di un lavoro, ogni cosa è complicata in India. Diciamo che gli indiani sono dei manager naturali».
Il background culturale, unito alle competenze, è diventato un asset perfetto per i giganti della Silicon Valley. A fine novembre Parag Agrawal, 34 anni di Bombay in America dal 2005, è diventato la new entry nel club degli indiani che plasmano i sogni digitali degli americani (e del mondo) prendendo il timone di Twitter da Jack Dorsey.
Dopo sette anni da amministratore delegato invece Satya Nadella, di fede buddista, è diventato presidente di Microsoft. E ha cambiato la cultura dell’azienda di Seattle, trasformandola radicalmente a partire dagli atteggiamenti aggressivi e inutilmente vendicativi che negli anni avevano guastato il clima interno. Stop a urla e toni sopra le righe nei meeting e direttive chiare sul rispetto delle regole nelle relazioni fra i dipendenti.
In pochi anni la capitalizzazione di Microsoft è schizzata da 300 miliardi a 2,500 miliardi attuali. Pichai ha applicato un simile approccio ad Alphabet. Ora tocca all’ultimo arrivato Agrawal confermare la bontà dell’approccio indiano.