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 2021  dicembre 22 Mercoledì calendario

La fine delle pellicce

Sembra che Covid-19 un risultato utile lo abbia, fra tanti dolori e danni, portato: la fine dell’allevamento da pelliccia in Italia, sancito nel prossimo documento di programmazione economica del governo. Non sarà più possibile allevare animali per ricavarne pellicce, lucrosa attività da noi ancora in piedi all’inizio del terzo millennio, neanche fossimo alla fine dell’era glaciale, bisognosi di proteggersi dai rigori del clima. Era ora, verrebbe da dire: sessantamila visoni, ogni anno, perdevano incomprensibilmente le loro vite per il lusso smodato e scomposto di sapiens italici privi di pudore, vergogna e rispetto.
L’Italia segue finalmente una ventina di altri paesi europei, mentre ancora in troppe parti del mondo si allevano animali per un “bisogno” che definire secondario è un eufemismo.
I cinque allevamenti nostrani erano nulla rispetto ai 70 della Russia o al numero non precisabile di quelli cinesi, ma simbolicamente si tratta di un evento significativo, auspicato da infinite campagne di meritorie associazioni come la Lav che hanno fatto della chiusura degli allevamenti una battaglia di bandiera. La pandemia ha accelerato un processo che avrebbe comunque portato a questo risultato: le decine di migliaia di visoni soppressi nel 2020 in Danimarca perché possibilmente infetti da Sars-Cov-2 e lo stop alle riproduzioni in Italia erano chiari segnali dell’approssimarsi della fine.
I visoni da allevamento sono stati infettati dall’uomo e, a loro volta, sono potenzialmente in grado di riportare il virus nel mondo naturale, in altri ospiti serbatoio sempre suscettibili di essere attivati. Dunque un pericolo mortale che ha probabilmente dato una spinta decisiva verso la cessazione di un’attività anacronistica, crudele e francamente intollerabile in un paese civile. Il valore di questa decisione non è solo ambientale e di salute pubblica, ma anche, e forse soprattutto, culturale: si mette fine al considerare gli animali come merce, come si trattasse di materiali con cui costruire le società dei sapiens. Una visione distorta del mondo naturale che affonda le sue radici addirittura nella filosofia di Cartesio e nel commercio di pellicce di qualsiasi animale avesse avuto la sfortuna di nascerne dotato. In Italia l’ultimo castoro viene ucciso all’inizio del diciannovesimo secolo in pianura padana e di lontre ne sopravvivono ormai pochissime in qualche remota fiumara lucana o abruzzese. Ma il commercio degli animali selvatici da pelliccia, pur avendo assunto nel tempo proporzioni mostruose, è nulla di fronte all’allevamento industriale di esseri viventi nutriti a forza, tenuti in condizioni spaventose e uccisi solo per la vanità di qualche individuo di una specie che si autodefinisce intelligente, ma che non capisce che gli organismi sono fasci di accidenti storici irripetibili, e non un insieme di macchine tendenti all’uomo.
I lavoratori del settore troveranno una giusta e migliore collocazione, mentre poco ci importa di un settore che avrebbe dovuto provare il brivido dell’abisso a lucrare sulle vite di animali senzienti e sofferenti. Vorrà dire che si sopperirà, con la ben nota inventiva italica, a quei brandelli di alta moda che abbisognavano di pellicce, nonostante la possibilità di tessuti alternativi riciclati. Nessuna pena per un’altra insensata attività dei sapiens che finisce.