Come si concilia la speranza con l’azione per cambiare il mondo?
«La speranza motiva ad agire. È come essere in un tunnel e vedere una piccolissima luce in fondo.
Invece di rimanere seduti e aspettarsi che la luce venga a noi, bisogna camminare e superare gli ostacoli per raggiungere la fine del tunnel: e per questo serve la speranza.
Io dico spesso ai giovani: è vero che le sfide come il cambiamento climatico spingono a pensare globale. Ma pensare globale può indurci alla depressione e quindi all’inazione…».
Meglio pensare localmente?
«E soprattutto agire: cercando di cambiare quello che possiamo all’interno delle nostre comunità.
Così possiamo vedere subito gli effetti positivi del nostro agire, sentirci meglio e ispirare gli altri.
Ora una speranza, ad esempio, è che il vostro ministero per la Transizione ecologica accolga la proposta del Jane Goodall Institute Italia, per migliorare la vita in cattività delle grandi scimmie».
Oggi sappiamo che gli scimpanzé in cattività soffrono perché hanno emozioni simili alle nostre. Lei sosteneva queste cose già negli anni ’60, ma allora molti la criticavano….
«In Africa avevo dato dei nomi agli scimpanzé che studiavo, e questa già sembrava un’eresia. “Devi indicarli con dei numeri. E non puoi parlare di personalità o emozioni, che sono un unicum umano” mi dicevano gli accademici di Cambridge. Io non controbattevo, ma con tranquilla determinazione continuavo a fare a modo mio, chiamando per nome gli scimpanzé. Anche perché non sarei riuscita a ricordarmi dei numeri!».
Quando cambiarono le cose?
«Quando il National Geographic mi mandò un documentarista, Hugo van Lawick (che poi sposai), per filmare gli scimpanzé mentre usavano steli e bastoncini per estrarre le formiche dai formicai, riprendendo anche l’amore tra madri e figli e la competizione tra maschi. Comportamenti molto “umani”.
Così il grande etologo Robert Hinde, che prima mi aveva criticato, venne in Tanzania e cambiò idea. Io comunque avevo capito già da bambina, osservando il mio cane Rusty, che gli animali hanno personalità e emozioni».
Ecco, oltre a Rusty quali sono stati i suoi primi incontri col mondo naturale?
«A quattro anni passai le vacanze in campagna, da mia nonna, in mezzo a mucche e cavalli. Per tenermi occupata un giorno mi diedero un lavoretto facile: raccogliere le uova delle galline. Io chiedevo a tutti: “Ma come fanno le galline a fare le uova? Da dove escono?”. E nessuno mi rispondeva. Allora inseguii una gallina che tornava nella stia, pensando che stesse per deporre un uovo. Ma lei mi notò e scappò via. Allora cambiai strategia: entrai in una stia vuota.
Mi nascosi e aspettai una gallina.
Per quattro ore. La mia famiglia nel frattempo non aveva idea di dove fossi. Quando mia madre mi vide tornare di corsa verso casa, pur essendo arrabbiata con me per lo spavento che le avevo fatto prendere, vide che ero euforica: avevo fatto la mia prima, importantissima scoperta. E così si sedette con me per ascoltare la meravigliosa storia di come le galline depongono le uova».
La bambina Jane a un anno ricevette in regalo uno scimpanzé di peluche. Oggi lei porta sempre con sé un altro scimmiotto, perché?
«Si chiama “Mister H”.
Me lo ha regalato Gary Haun, un ex marine che ha perso la vista e oggi fa il mago. Organizza spettacoli allenandosi con enorme scrupolo: mentre esegue i suoi numeri nessuno capirebbe che è cieco.
Alla fine dello spettacolo è lui stesso a rivelarlo ai bambini, aggiungendo: “Qualche volta nella vita le cose possono andare male, ma anche quando succede così, non mollate mai. Se io ho potuto diventare un mago, voi potete raggiungere qualsiasi risultato”.
Quando Gary me lo regalò, io gli feci toccare la coda di Mr.H e osservai: “Ehm, Gary, ma ha la coda: non è uno scimpanzé”.
Lui rispose: “Comunque portalo ovunque andrai, e io sarò lì con te”.
Così questo scimmiotto mi ricorda, ogni giorno, l’indomabile spirito umano».