il Giornale, 21 dicembre 2021
Biografia di Nicola Chiaromonte
Nato nel 1905, morto nel 1972, antifascista e esula dall’Italia, in Francia e poi negli Stati Uniti, dalla metà degli anni Trenta ai primi anni Cinquanta, plurilingue, ben conosciuto in quel milieu intellettuale che di qua e di là dell’Atlantico vedeva dibattere Sartre, Camus e Mary McCarty, Malraux e Hannah Arendt, filosofo per habitus mentale e critico teatrale per passione, Nicola Chiaromonte resta per noi italiani una sorta di pianeta lontano di cui si conosce l’esistenza, ma si fa fatica a delimitare contorni e contenuti. Si sa che è stato amico e sodale di Ennio Flaiano: «La tua solitudine è la mia: due solitudini fanno già un baluardo» gli scriverà quest’ultimo. Si sa che è stato con Ignazio Silone il fondatore di Tempo presente, rivista cult e insieme rivista laica di minoranza in quell’Italia postbellica dove si fronteggiavano due chiese politiche, quella cattolica e quella comunista. Si sa che è stato collaboratore del Mondo di Mario Pannunzio, idem come sopra quanto a laicità e minoranza, nonché un amico, fin dalla giovinezza, e un estimatore critico di Alberto Moravia, amicizia e stima critica ricambiate Anche qui, soltanto dai nomi citati, si può facilmente rintracciare il filo rosso di una presenza significativa nel dibattito politico-culturale italiano, nonostante un’esistenza terrena in fondo breve, Chiaromonte morì che aveva 67 anni, di cui all’incirca venti vissuti in terra straniera.
Ciò nonostante, quel senso di lontananza e di estraneità permane, reso più acuto da un lato dal suo stesso dilettantismo, il non fare dei propri interessi una professione, dall’altro dal restare sempre e comunque un uomo solo, la solitudine prima ricordata da Flaiano, in un Paese che culturalmente e politicamente ha sempre preferito il collettivo all’individuale, i manifesti multi-firma, l’osmosi baronia-editoria, il mutuo soccorso ideologico
A reinserire Chiaromonte nella storia della cultura italiana ci prova ora questo volume dei Meridiani, quasi duemila pagine, curato con intelligenza e passione da Raffaele Manica e che fra politica, filosofia e letteratura permettono la conoscenza completa della sua opera (Lo spettatore critico, 80 euro) e illuminano quel dilettantismo prima accennato, ma troppo spesso male interpretato.
Pur nella diversità degli interventi, ovvero dei mezzi scelti per intervenire, dalla recensione al saggio al commento, il magistero intellettuale di Chiaromonte ha infatti sempre ruotato intorno a temi ben precisi: il senso e il peso della storia, la critica della modernità, la libertà a petto del potere politico.
Sotto questo aspetto, la sezione che ha come titolo Credere e non credere e che raccoglie l’omonimo volume uscito poco prima della sua morte, ma frutto di un ventennio di riflessioni via via pubblicate, è esemplare. Al suo centro, partendo dallo Stendhal della Certosa di Parma, passando al Tolstoj di Guerra e pace, allo Zivago di Pasternak e alla mitografia di André Malraux c’è in filigrana il percorso di un intellettuale del ventesimo secolo alle prese con la storia, l’idea di esserne partecipe e in qualche modo condizionarla, con il potere della politica e la suggestione delle rivoluzioni che la dovrebbero incarnare, con la consapevolezza che ogni scelta individuale rispetto ai dogmi di una ideologia trasformatasi in religione ha come prezzo un’espulsione dalla comunità di cui si è comunque parte integrante, ma che l’egomania in senso stretto è una mostruosità.
Alla base di Credere e non credere c’è innanzitutto la riflessione di chi, guardando al sé stesso degli anni Trenta, doveva constatare che «in questo dopoguerra, quelli come noi che hanno fatto il giro delle ideologie, e in particolare delle ideologie socialiste, si sono ritrovati a difendere con certezza le libertà concrete, il rifiuto in ogni caso e a ogni costo del totalitarismo e delle ideologie che vi conducono: la sostanza delle quali, a guardar bene, è il primato morale della politica su ogni altra attività umana». Era insomma il suo un dire no alla «ragione politica» come «un assoluto», un imperativo categorico che toglieva all’azione politica stessa «ogni base morale» e la riaffermazione del confronto fra le idee e i fatti, «ossia il giudizio del senso comune, che è la sola base su cui il cittadino può essere stimolato a intervenire nelle faccende pubbliche».
Il capitolo che apre Credere e non credere e che si intitola «Fabrizio a Waterloo» anticipa ciò che il Novecento delle rivoluzioni, dei totalitarismi e degli uomini forti, siano essi militanti di un’idea o dittatori della stessa, ripete quasi in materia pedissequa: l’idea di fare la storia. In mezzo c’è l’Ottocento positivista, con la sua fede nel progresso come motore della storia, andato in frantumi con lo scoppio della Grande guerra. Fabrizio del Dongo, è noto, si arruola sedotto dal mito di Napoleone, partecipa alla sua ultima battaglia senza riuscire a venirne a capo, a capire persino se sta combattendo, con chi e contro di chi Ciò che alla fine gli rimane, è «il momento presente», ovvero «l’ironia del particolare, il Potere incommensurabile che sovrasta il mondo delle azioni umane. Allora, la più umile e consueta delle realtà quotidiane sembrerà infinitamente più importante della gloria di Napoleone».
In sostanza, nel suo incontro con la Storia, Fabrizio ha la rivelazione che «la storia in atto è il luogo del destino perché è il luogo del caso, non perché vi si verifichi la razionalità di una qualche legge suprema, o perché l’individuo possa appagarvi il suo bisogno di vita vera»: Quest’ultima, insomma, «non si trova nelle vicende delle battaglie e delle dominazioni». Gli rimane altresì il miraggio, la rappresentazione degli eventi, le finzioni in cui ci s trova irretiti, la «sensibilità irragionevole», tutte cose che un secolo dopo saranno invece proprie di Malraux, per il quale la cosa più orribile è «l’inazione, la noia con i suoi incubi» e la realtà ha «il volto della forza», che è poi semplicemente «il volto del nostro tempo». In questo Malraux è più stendhaliano dello stesso Stendhal, che di quel miraggio era perfettamente consapevole e ironicamente infatti lo raccontava. Lo è nel senso che egli alla fine è il personaggio romanzesco di sé stesso, le sue Antimemorie sono le memorie di una vita di finzione, per lui più vera del «tasso di pettegolezzi e miserie» di cui è fatta ogni umana biografia.
Dice Chiaromonte, riprendendo Tolstoj, che «la storia dei moderni è come un sordo che risponde a domande che nessuno gli fa e per converso non risponde a quelle che gli si fanno». Ciò che ne rimane esclusa è «l’essenza inaccessibile della vita». Sotto questo aspetto, ciò che resta fuori dalla Storia, così come dalla politica che la vorrebbe guidare e/o interpretare, è proprio quel qualcosa che «riguarda non il fare ma il pensare: la questione della verità e del senso della vita». Suo corollario, insomma, è l’idea che l’uomo ha di se stesso e di ciò che rende la vita degna di essere vissuta, «quindi del valore che ha, ai suoi propri occhi, l’esistenza che egli si trova per storico destino a concludere».
Messa così, ogni idea di progresso, «il laudator temporis agendi» è pura malafede, visto che con essa si spacciano «i successi sensazionali della tecnica scientifica, biologica o fisica che sia, le imprese spettacolari della cosmonautica, i risultati portentosi della chirurgia». L’essere andati sulla luna, nota ironicamente, «non farà avanzare di un passo la felicità di un solo individuo sulla faccia della terra» In definitiva, «l’uomo è sempre egualmente felice e infelice, ha sempre a sua disposizione la stessa quantità di felicità, la stessa possibilità di sentirsi felice, insomma, per la buona e semplice ragione che felice davvero non può esserlo mai, né portare a compimento alcuna delle sue più profonde aspirazioni. Vale pur sempre, se si parla di felicità, la parola che echeggia in tutta la cultura del mondo classico: Non chiamare nessuno felice finché non sia morto».
Chiaromonte era un filosofo greco al tempo della civiltà delle macchine.