il Fatto Quotidiano, 21 dicembre 2021
Il narcisismo di Berto
“Ormai è entrata nella testa della gente l’idea che a far parlare di sé e a farsi conoscere per le buone qualità che si hanno, e soprattutto per quelle che non si hanno, c’è da guadagnare parecchio”: è il 1965, Giuseppe Berto (1914-1978) sta abbozzando un personale Elogio della vanità, ignaro che oltre mezzo secolo dopo le sue parole sarebbero suonate profetiche. Guadagnare con la visibilità, mettendosi in mostra pure avendo poco o nulla da mostrare: che idea ridicola, se non fosse che è già stata smentita dai fatti.
“Ognuno giustamente – prosegue Berto – si dà da fare per crearsi una fama… ed ecco che si sono moltiplicati e complicati a dismisura i mezzi per la diffusione di utili menzogne”, oggi diconsi selfie, Facebook, Instagram e altre diavolerie del caso. E non a caso le librerie sono piene di titoli sul male del secolo: saggi di navigati strizzacervelli – come Vittorio Lingiardi (Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo, Einaudi) e Giancarlo Dimaggio (Il diavolo prenda l’ultimo. La fuga del narcisista, Baldini+Castoldi) –, o ebook da tre soldi autoprodotti, indietro fino a diagnosi precoci di oltre dieci anni fa. Già nel 2009 lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, in Fragile e spavaldo (Laterza), preconizzava il passaggio del bambino da Edipo a Narciso, colui che “ha bisogno di vedere riflessa la propria immagine nello specchio sociale, nel consenso del gruppo”; colui che considera l’altro un “fan” e “ha la certezza di avere diritto” al successo e alla visibilità.
Che il narcisismo abbia a che fare con l’infantilismo lo aveva intuito anche Berto nel suo Elogio della vanità, edito da Settecolori come prezioso e illuminante repêchage dopo la prima pubblicazione del 2007. Quel pamphlet ebbe fortuna avversa: scritto nella primavera del ’65, avrebbe dovuto essere la Strenna di Natale della Rizzoli, ma fu bloccato, per non dire censurato, perché l’autore osava menzionare alcuni suoi contemporanei vanitosi – Carlo Emilio Gadda, Sandro De Feo, Carlo Levi, Piero Sadun, Giovanni Nuvoletti… “Il tuo saggio è bellissimo”, appuntava in una lettera a Berto Paolo Lecaldano, allora direttore editoriale della Rizzoli. “È nostra comune opinione, però, che i nomi e i fatti contemporanei che tu citi qualche volta (pochi, per fortuna) stonino un tantino in un discorso tanto acuto e ‘universale’; ti consiglieremmo di espungerli senza esitazione, e di non sostituirli con altri”. Fine del discorso, e del manoscritto, poi andato misteriosamente perduto e rimasto inedito per oltre quarant’anni, prima che venisse ritrovato in un fondo privato nel 2006.
Lo scrittore de Il cielo è rosso, nonché sceneggiatore di Anonimo Veneziano (diventato solo successivamente al film una pièce teatrale e infine un romanzo), non fu mai fino in fondo apprezzato, specie nell’ambiente intellettuale: i comunisti continuavano a vederlo come un fascista, mentre i vecchi compagni di littorio lo accusavano di tradimento. Dopo aver licenziato Il male oscuro nel 1964 – il suo più importante romanzo, vincitore dei premi Viareggio e Campiello –, Berto passò dalla padella della depressione alla brace dell’esibizionismo ispirato dal sempiterno motto biblico: “Vanitas vanitatum et omnia vanitas… per cui tutto è vano, vuoto, illusorio”.
Alla sua singolare fiera delle vanità incontra una fauna ricca e varia: “Alcune anziane scrittrici che continuano a vestirsi da bambole anche nei decenni oltre i sessanta”; il gibboso quanto vanaglorioso Leopardi; l’anacoreta che si ritira a pregare nel deserto, ma sempre in bella vista sopra a una colonna; i maniaci sessuali desnudi ai giardinetti; Cicerone e Balzac; Napoleone e il duce; Poppea e Matilde di Canossa; Casanova e Santa Teresa. Come Erasmo con la follia, l’Elogio di Berto è un espediente retorico e ironico per smascherare narcisisti ed esibizionisti, con piglio semiserio da trattato psicoanalitico – lui che masticava come paziente l’analisi da anni – e citazionismo dotto da scrittore del Novecento, che ama sfruculiare i classici, il Qoelet e Chamfort, La Rochefoucauld e Wilde, fino (inconsciamente) alla “fetta di vanità” di pochi minuti che echeggia Warhol.
I casi “esorbitanti o extraproporzionali” di narcisismo sono dannosissimi e diffusi soprattutto tra i capi di Stato e di governo, tra i militari, tra i politicanti, gli artisti, i registi cinematografici e, in primis, gli scrittori. E qui Berto dà il meglio di sé in cattiveria e malizia, sbozzando un ritratto irresistibile dell’intellettuale narciso: costui non “neutralizza gli avversari” ma si crea “una solida base di conoscenze e amicizie”, conquistando “la simpatia specie delle signore”. La sua principale attività non è scrivere ma “elargire presentazioni e prefazioni sperticatamente encomiastiche”, farsi spazio sui giornali, procacciarsi appoggi politici, in un vortice di “favoreggiamento, ricatti, intrallazzi, intimidazioni”. Come riconoscere infine “il social-esibizionismo”? Facile: “per quanto sia trascurabile dal punto di vista dei progressi intellettuali, esso è sempre accompagnato da intensa attività sessuale”.