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 2021  dicembre 21 Martedì calendario

Maurizio Cattelan vorrebbe essere Angela Merkel. Intervista

Dieci anni fa, decideva di scendere dalla giostra dell’arte contemporanea e di appendere le provocazioni al chiodo. Se si fa eccezione per il water dorato installato al Guggenheim o la banana attaccata con il nastro adesivo ad Art Basel, Maurizio Cattelan (Padova, 1960) ha più o meno mantenuto la promessa. Ma i giardinetti non sembrano troppo vicini. In questo momento l’Hangar Bicocca di Milano ospita la sua mostra Breath Ghosts Blind , aperta fino al 20 febbraio 2022 proprio come
Last Judgement all’Ucca di Pechino. E ora l’artista pubblica Index (con Marta Papini e Michele Robecchi, a cura di Roberta Tenconi, Vicente Todolí e Fiammetta Griccioli, editore Marsilio), dove raccoglie vent’anni di conversazioni con più di 130 colleghi.
Cattelan, ha scelto di intervistare gli artisti perché è meglio intervistare che essere intervistati?
«È meglio essere in cattedra o essere interrogati? Vivo ogni intervista a cui devo rispondere come un interrogatorio in cui risulterò sicuramente colpevole, anche se non ho fatto niente. Intervisto gli artisti principalmente per curiosità. Mi piace sentirli parlare di sé e del proprio lavoro, del loro processo ideativo, di come elaborano un concetto e lo trasformano in opera, di che cosa leggono e cosa guardano. È come esplorare un universo parallelo, in cui ogni cosa è leggermente diversa ma anche familiare. E poi ho sempre imparato di più dalle risposte degli altri che dalle mie».
Nel suo libro ci sono anche interviste impossibili, come a Filippo Tommaso Marinetti, Domenico Gnoli e Francis Bacon.
Che cosa la accomuna e che cosa la allontana da questi artisti?
«Io sono vivo, loro sono morti, a livello ontologico questa è sicuramente una gran differenza!
Non hanno molto in comune neanche tra di loro, se non il medium della pittura, che li rende una volta di più diversi da me. È interessante come hanno saputo declinare questo medium in modi totalmente differenti: chi ha cercato di superarlo, come Marinetti, chi è stato capace di stravolgerne i presupposti, come Bacon, chi di esaltarne il canone, come Gnoli. Tutti e tre hanno a loro modo cercato di fare qualcosa di diverso da ciò che li aveva preceduti con un unico medium. Non riesco a trovare molti punti in comune, e forse proprio per questo mi sono interessato a loro».
Ha intervistato Virgil Abloh. Che ricordo ha di lui e quale è stata la sua rivoluzione?
«Ricordo che aveva una chiarezza incredibile su cosa stava facendo, e con quale obiettivo. Mi era sembrato una persona generosa, modesto e ambizioso allo stesso tempo, una combinazione rara che ho sempre apprezzato e che avrei sempre voluto apprendere. Le sue rivoluzioni sono state tante: quando è arrivato a capo di Louis Vuitton ha frantumato il tetto di cristallo che impediva ai neri di ricoprire certe posizioni: viviamo in un momento di cambiamento, e lui sicuramente ne è stato uno dei simboli più rappresentativi. E poi ha rivoluzionato i codici del lusso, contaminandoli con quelli dello street wear».
Se potesse vivere 24 ore nella vita di un altro artista, chi sceglierebbe?
«Vorrei provare l’esperienza di un dannato, di una persona che combatte coi propri demoni ogni giorno, e che riesce a fare, nonostante tutto, o proprio grazie a questo, un’arte significativa anche per gli altri. Mi viene in mente Antonio Ligabue, avrei voluto conoscerlo, andarlo a trovare a Gualtieri e passare un pomeriggio con lui».
E oggi, invece, a cena con Damien Hirst o Jeff Koons?
«Rifiuto gentilmente l’invito di entrambi. Potendo scegliere vorrei andare a trovare Louise Bourgeois in uno dei suoi “Sunday, bloody Sundays” nella casa a Chelsea, al 347 West 20th Street. Ogni domenica pomeriggio, a partire dagli anni Settanta fino alla sua morte all’età di 98 anni, riceveva i giovani artisti che andavano a presentarle il proprio lavoro, faceva domande, li criticava.
L’ingresso era aperto a tutti, dovevi solo portare il tuo lavoro e non avere il raffreddore».
Cederà – o ha già ceduto – agli NFT? Che cosa pensa della smaterializzazione dell’opera d’arte?
«Arrivo sempre in ritardo, finalmente mi ero convinto a comprare un fax, e saltano fuori questi! Scherzi a parte, credo siano due questioni diverse. Di smaterializzazione dell’arte si è iniziato a parlare negli anni Settanta con la cibernetica, poi negli anni Novanta con la net-art, negli anni Dieci il post-internet, che ora chiamiamo post-digital, etc. etc. Ma insomma i tentativi di smaterializzazione dell’arte non sono una novità, esistono da quando esiste un mondo virtuale, che sempre di più diventa uno spazio reale nelle nostre vite. Per quanto riguarda gli NFT, li considero interessanti nella misura in cui fanno da contenitore. Gli NFT sono un protocollo di sicurezza, sicuramente utilissimo per garantire l’unicità di un’opera d’arte “nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, per dirla con Benjamin. Ma l’NFT è una piattaforma, non è il suo contenuto: sarebbe come dire che il certificato di autenticità di un’opera può sostituirsi all’opera stessa. Se prendi una banana e la attacchi al muro col gaffer, non è un’opera d’arte a meno che tu non abbia anche il certificato di autenticità, o l’NFT collegato a essa. Solo se hai quel certificato, pezzo di carta o NFT che sia, sei il proprietario del suo contenuto, ma se vuoi esporre l’opera non incornici l’NFT. Scendi al supermercato e ti compri una banana e del duck tape».
C’è qualcosa che l’ha stupita quest’anno nel mondo dell’arte?
«Quando ero a New York sono andato a trovare un’amica artista, Jamian Juliano-Villani, che ha aperto da poco una sua galleria, O’Flaherty’s. In teoria è una galleria commerciale, ma è lontanissima da qualsiasi altra cosa io abbia visto di recente là. Il posto è fuori dalle zone “giuste”, è su Avenue C, al limite dell’East Village.
Già questo è uno statement in una città come New York. Jamian e i suoi tre soci se ne strafregano delle aspettative, delle convenzioni e del white cube. Non gli interessa davvero vendere, quello che vogliono è che gli artisti che invitano facciano una mostra “come se dovessero morire fra un mese”. È una bella ventata di aria fresca».
C’è un’opera che non rifarebbe più?
«Ce n’è una lunga serie: ora non ho la lista con me e a memoria faccio fatica a elencarle, tendo a rimuoverle. Se mi guardo indietro, so di avere fatto tanti errori. Vorrei dire che ho imparato qualcosa nel farli e nel riconoscerli, ma non sono sicuro che sarebbe la verità».
Qual è la prossima che farà, se la farà?
«Avrà due gambe, due braccia, due occhi, due orecchie e una bocca e, se sono fortunato, con un soffio camminerà».
Copio tre domande che lei nel libro fa al suo collega Francesco Vezzoli. Se lei fosse una sua opera, quale sarebbe?
«Dunque, non potrei essere uno scoiattolo, non ho tutti quei peli. Oggi non mi sento tanto un cavallo, ma in alcuni giorni potrei. Non ho mai voluto e mai vorrei essere il Papa, quindi... forse il cartello Torno subito ».
E se fosse un film?
«Un film di formazione, come
Apocalypse Now. Vedo la mia vita come un lungo viaggio verso l’ignoto: a ogni metro in più sul Mekong mi addentro nel mio inconscio, imparo qualcosa di me stesso che fino all’avamposto prima avevo ignorato.
Non necessariamente questo mi migliora, anzi: il viaggio è sempre più spaventoso e oscuro, ma io divento sempre più consapevole».
E se fosse un politico?
«Angela Merkel oggi. Mi sento pronto per una seconda pensione».
Quindi, alla fine, si considera un pensionato dell’arte oppure no?
«Mi sono sempre considerato un ragioniere con l’hobby dell’arte».