Corriere della Sera, 21 dicembre 2021
Biografia di Alessandro Borghi raccontata da lui stesso
Ad Alessandro Borghi non era venuto mai in mente che potesse fare l’attore. Non quando faceva lo stuntman («era solo uno dei miei trecento lavori»), non quando a 18 anni s’imbucò a un David di Donatello («mi pareva impensabile anche solo andarci con un biglietto mio invece che di un altro, figuriamoci far parte di quella gente»). E neppure quando, bambino, suo padre lo filmava di continuo: «Stavamo al piano terra a viale Marconi, a Roma, scavalcavo il balcone per andare in cortile. Papà mi riprendeva da dentro casa, io tutto biondo in bici, io col pallone, poi cascavo, mi sbucciavo le ginocchia, andavo da lui, piagnevo e lui, sempre riprendendo: nun è niente. Io piagnevo, uscivo di nuovo, ridevo». Sarebbe forse facile raccontare com’è che diventa attore questo ragazzo pazzescamente sorridente e adesso barbutissimo perché sta girando Le otto montagne di Felix van Groeningen e che ha fatto Diavoli con Patrick Dempsey, Suburra diretto da Stefano Sollima, e che nel 2019 ai David ci è andato invitato e ne è uscito con la statuetta da miglior protagonista per Sulla mia pelle o che quest’estate ha girato in Norvegia con Peter Mullan e dal 23 dicembre, al cinema, è il protagonista di Supereroi di Paolo Genovese. Sarebbe forse facile, ma non lo è perché Borghi, 35 anni, ha vissuto tanto, ma pensa anche tanto. «Io ho la testa che viaggia molto», dice, «mentre arrivavo per l’intervista, stavo in taxi e ho pensato, così “a buffo”, che è difficile trovare il modo di esprimersi ed essere sicuri di comunicare quello che vuoi dire, ma poi, quanta intelligenza serve per capire se la persona con cui parli ha l’intelligenza per capire cosa dici? È un doppio salto mortale, no?».
Ho capito solo che non ama le interviste. Sbaglio?
«Io potrei essere un astrofisico e raccontarle dei buchi neri, ma poi lei come fa a dire se ho ragione o no? Essere travisato mi terrorizza, forse perché ci ho messo anni a capire non chi io sia ma chi vorrei essere. La differenza dei livelli di comunicazione è una cosa a cui penso con tenerezza perché sono cresciuto fra persone senza istruzione, ma con quella che chiamo “una meravigliosa educazione stradale”».
E che sarebbe l’educazione stradale?
«Sapersi adattare a tutti i tipi di esseri umani e situazioni. Mi domando, se mai sarò papà, se i miei figli potranno impararla. Agli amici coi figli alla scuola privata, chiedo: “In classe, gli hanno mai dato una pizza in faccia?”. Rispondono: “Ma sei matto?”. Io di pizze ne ho prese: a ognuna, imparavo qualcosa. Educazione d’impatto».
Da chi le prendeva?
«Dove sono cresciuto io, era la normalità: arrivavi e dovevi crearti il tuo spazio. Se cercavi di essere amico di chi prendeva 10, i ripetenti ti gonfiavano di botte e, se eri amico dei ripetenti, quelli col 10 non ti parlavano più. Per cavartela, l’unica era essere te stesso. Fino a 16 anni, ho solo preso botte. Tuttora, se vedo uno che tratta male un altro, provo qualcosa di brutto».
Come ne uscì?
«Ero diventato manesco. Aver cominciato pugilato mi ha salvato perché mi faceva sentire in grado di difendermi. Poi cresci e capisci che invece del pugilato è meglio che cominci a leggere due libri, almeno ti difendi con le parole».
Lei che voleva fare da grande?
«Non ci pensavo. Poi, mi fu regalato un libro, Il potere di adesso. Mi si aprì un mondo, quello dello stare nel presente. Uscivo da una delusione d’amore ed era un momento di estrema povertà, non avevo una lira, facevo solo lavoretti, però ricordo che quando la sera andavo in macchina fuori Roma per fare il sorvegliante notturno in un palazzo a specchi ero felice come un bambino. Vedevo la vita bellissima anche quando facevo il commesso fino alle 18 e subito dopo il cameriere fino alle due di notte».
Ha scritto su Instagram «lo dico soprattutto ai ragazzi che provano a fare il mio mestiere, facendo tre lavori: le cose belle accadono».
«L’ho scritto tornando da Los Angeles. Peter Mullan mi aveva appena raccontato di quando Ken Loach, sul set di My name is Joe, gli disse: ricordati di essere sempre la persona meno importante nella stanza. Quella frase mi rimbombava in testa facendomi pensare a tutte le persone da cui ho imparato qualcosa, come Claudio Caligari e Valerio Mastandrea quando abbiamo girato Non essere cattivo, Peter Mullan o Charles Dance sul set di The Hanging Sun... Tutte avevano un ego basso: per loro, comunicare aveva a che fare solo col trasmettere informazioni, mentre a volte ci facciamo sovrastare dal voler dimostrare di essere i più bravi. Infatti nello stesso post ho scritto anche: lasciate l’ego da parte e mentre lo dico a voi lo sto dicendo a me».
Problemi di ego lei ne ha avuti?
«Sì, perché ci ho messo molto per riuscire a fare cinema come piaceva a me. Al primo ciak avevo 18 anni e Sollima mi scelse per Suburra a 28. Dopo dieci anni nell’ombra cercavo rivalsa... Tipo: ora vi faccio vedere quanto vi siete persi».
Prima diceva «ci ho messo anni a capire chi volevo essere». Che cosa ha capito?
«La cosa che è mutata è che ho smesso di avere paura di giudicarmi e di cambiare. Irene, la mia fidanzata, dice sempre: tu hai un sacco di difetti, però sei molto risolto con te stesso».
Irene Forti, manager delle risorse umane, studi a Londra. Sotto una sua foto, lei ha scritto solo: fine. Nel senso di «fine. È lei».
«Ne sono profondamente innamorato. Mi dice sempre: amo le persone che si alzano la mattina e sanno chi vogliono essere. Questa frase è diventata un’ispirazione. Ogni giorno mi chiedo: io cosa voglio fare per me, per gli altri, per questo mondo? La risposta non c’è, ma la domanda in sé attiva un processo che mi costringe ad avere a che fare con me in modo diverso».
E difetti ne ha davvero un sacco?
«Ne ho, ma molti li ho superati. Ero permaloso e molto pieno di me».
Perché sta ridendo?
«Per tutta la vita mi hanno detto: hai occhi bellissimi. E io ero convinto di avere gli occhi più belli del pianeta. Poi, crescendo, ti dici: che deficiente ero. Di brutto avevo anche che prendevo in giro gli altri in un modo mutuato dall’ambiente popolare da cui venivo. Le parole hanno un peso. L’insulto fa male. È successo pure a me. A lungo ho pensato di avere dei tic, invece era Sindrome di Tourette. Sente che ogni tanto ho un respiro strano? Sono spasmi. È una sindrome neurologica, con vari sintomi: io ho gli spasmi o mi soffio sulle dita. Dopo la diagnosi ho smesso di considerarlo un problema, perché almeno adesso so che cosa ho».
E quando recita come fa?
«Mi passa. Mi sono dato una spiegazione “poetica”: il mio lavoro è mettermi nei panni di un altro; l’altro la Tourette non ce l’ha e quindi, in quel momento, neanch’io».
Se non fosse stato fermato da un talent scout fuori dalla palestra sarebbe diventato attore?
«Qualcosa avrei fatto perché sono uno che si arrangia, ma non credo cinema: feci quel provino solo perché mio padre mi disse: “Gli ha detto che ce andavi e ora ce vai”».
Ci andò e scoprì che recitare le era facile?
«No, andai e non vedevo l’ora che finisse. Già m’immaginavo i commenti... Ahò, vuoi fa’ l’attore, ma ‘ndo vai? Invece fui preso subito».
Quando capì che ce la poteva fare?
«Ricordo l’arrivo sul set di Caligari. Non ho pensato “ce la posso fare”, ma: se non faccio vedere adesso che so fare, non avrò più possibilità. Lì ho detto a mia madre “mo’ non ti devi preoccupare più di niente”, sa la rivalsa bella di chi viene da un posto semplice?».
Il personaggio più difficile?
«Quelli più lontani da me. Stefano Cucchi in Sulla mia pelle fu facile: di ragazzi come lui ne ho conosciuti tanti. Difficile è stato fare Il primo re, un film in protolatino girato per tre mesi nei boschi, o Diavoli, incentrato sulla finanza, in inglese con accento british».
Uscirà a breve la seconda serie. La prima è stata vista in 160 Paesi: che effetto fa?
«Assurdo, ma l’avevo già vissuto con Suburra, la serie... Fai 80 milioni di spettatori, chiedi “è andata bene?” e loro: be’ poteva andare meglio. Lì ho iniziato a preoccuparmi di essere capito da tutti in tutto il mondo. Pensavo: gli americani non conoscono i gipsy».
Non deve preoccuparsi lo sceneggiatore dell’universalità dei simil Casamonica?
«Però l’attore può rendere emotivamente comprensibile una cosa non immediatamente comprensibile».
Chi o cosa l’ha aiutata ad avere fiducia nel suo talento?
«Sentire la fiducia che altri avevano in me. Quando Sollima mi scelse si era rotto il bidet, l’avevo smontato, attraversavo la strada col bidet in braccio. Squilla il cellulare. Era lui. Mi è venuto un infarto. Poi mi ha detto: vedrai che tutto quello che farai andrà bene. Ho pensato: se si fida così tanto avrà ragione, mica è scemo. Avvertire fiducia alleggerisce, cominci a giocare con un lavoro che è fatto di momenti: fai trenta take orribili, uno splendido, nel film va quello orribile e vinci il David».
«Supereroi» è il suo primo film tutto sull’amore.
«È su un uomo e una donna che, attraverso l’amore, si distruggono e poi si ricompongono e poi si ridistruggono e poi si ricostruiscono. Ci ho ritrovato, dopo Fortunata, Jasmine Trinca, una sorella».
Avere figli è un tema del film: lei ne vuole?
«Nella mia testa, ho un pensiero di famiglia come se già esistesse. Il desiderio credo sia legato al tipo di amore che provo».
La sua compagna è d’accordo?
«Forse più di me. Io, a volte, ho dubbi perché non mi piace quello che vedo fuori: non capisco se l’atto di egoismo sia non mettere al mondo qualcuno secondo un tuo giudizio o mettercelo conoscendo il brutto là fuori. Poi, quando ne parliamo insieme, lei mi riporta sul pianeta Terra. Mi dice: ti fai troppe domande. Ha ragione».