il Giornale, 20 dicembre 2021
Intervista a Salvatore Esposito
Ci sono nomi che fanno da pilastri nella vita di Salvatore Esposito, 35 anni, celebre per un personaggio (Genny Savastano) le cui battute i fan della serie Gomorra conoscono a memoria.
Le fondamenta del successo di Esposito si chiamano Paola («l’amore della mia vita»); Assunta e Giuseppe («i miei genitori»); Anna («mia sorella») e Christian («mio fratello»). Una casa dalle basi solide, impastate col cemento di antichi valori: onestà e impegno. Se non fosse stato così, quel successo non sarebbe mai arrivato. Per questo Salvatore ha dedicato il suo primo grande romanzo, Lo sciamano (Sperling & Kupfer), ai membri più cari della sua famiglia.
Mattone dopo mattone il fabbricato degli affetti è cresciuto, diventando un grattacielo. Dalla vetta ora Esposito guarda giù. E si rivede giovane, quando ventenne abbandonò il posto fisso in un fast food, perché il suono del ciak sul set era più fascinoso dello sfrigolio dell’hamburger sulla piastra. Inizia così una carriera da aspirante attore. Il mitico Genny era ancora di là da venire, ma quando c’è il talento i fogli del calendario volano presto. Anni di studio. Salvatore ha la recitazione nel sangue. Deve però affinarsi. Lavorare sui dettagli. Smussare gli angoli. Sente dentro di sé che la strada è giusta. Lui lo sa. Ora deve convincere gli altri.
L’occasione della vita arriva col provino per la prima stagione di Gomorra. Roba grossa. Ma nessuno immagina diverrà stratosferica: il serial italiano più venduto al mondo. Un boom che dura da un decennio.
Quella attualmente in onda è la «stagione finale» (la quinta), eppure nell’Ade di Gomorra non sempre chi pare morto muore davvero, come insegna il ritorno in vita di Ciro Di Marzio (interpretato da Marco D’Amore), «l’immortale».
Un passo indietro. Salvatore nell’ormai lontana audizione del 2010 gioca in casa, ma nella «sua» Napoli i pretendenti alla parte sono tanti, tutti bravi e affamati di gloria. In palio il ruolo-principe della serie, quello del figlio del boss Pietro Savastano (l’attore Fortunato Cerlino). Salvatore sbaraglia la concorrenza. L’uomo giusto è lui.
Al provino c’è pure Marco D’Amore, di qualche anno più grande e con maggiore esperienza. Incarnerà il volto dell’«immortale»: al tempo stesso «fratello» e antagonista di Genny. Tra i due nasce un sodalizio umano e professionale che diventa la chiave di volta dell’epopea di Gomorra.
Fra Savastano e Di Marzio la conflittualità dei rispettivi personaggi è inversamente proporzionale all’amicizia tra Salvatore e Marco.
Se chiudi gli occhi, quali sono le quattro scene di Gomorra, con Genny protagonista che ti vengono in mente?
«Gomorra 1, quando Genny, istruito da Ciro, tenta di uccidere (senza riuscirci) un tossicodipendente. È il suo battesimo del fuoco».
Seconda scena.
«Gomorra 2: Genny arma la mano di Ciro, incaricandolo di uccidere don Pietro Savastano, il padre di Genny».
Scena tre.
«Contestualmente alla morte di don Pietro (appena ammazzato da Ciro davanti alla cripta della Famiglia Savastano), Genny stringe tra le braccia il figlio che la moglie, Azzurra, ha appena partorito. L’ostetrica chiede: Come lo chiamiamo questo bel bambino?. E Genny risponde: Pietro. Pietro Savastano. È la prosecuzione della stirpe».
Scena quattro.
«La scena finale di Gomorra 3: Genny sullo yacht spara a Ciro, uccidedolo».
Ma le sequenze-cult sono decine. Si può dire che per la qualità di sceneggiatura e livello di produzione la serie Gomorra è entrata nella storia degli audiovisivi?
«Sì. Come dice Marco D’Amore, questo serial ha tracciato una linea di confine tra l’epoca pre-Gomorra e l’epoca post-Gomorra».
Mentre Genny e Ciro si scannano sulla scena, Salvatore e Marco nei tour promozionali per la quinta serie di Gomorra sembrano la reincarnazione di Totò e Peppino. Vi divertite e le «interviste incrociate» diventano degli show comici.
«Io e Marco siamo amici. Ci frequentiamo anche nella vita privata. L’autoironia è una caratteristica comune. Nelle gag che improvvisiamo lui è il carnefice e io la vittima. Lui fa Totò e io Peppino. Ma a volte ci scambiamo le parti in commedia».
Nella saga di Gomorra siete invece «fratelli». Sul modello però di Caino e Abele.
«La competizione dell’odio. Energia al servizio di cause sbagliate. Ogni episodio di Gomorra pone in conflitto il cupio dissolvi della disperazione e la speranza frustrata di una rinascita impossibile».
Le anime sono dannate perfino in presenza di elementi devozionali. I cuori restano di pietra anche baciando un crocifisso prima di crivellare di colpi una bambina. Come fa «Malammore», il sicario del boss Savastano, quando uccide Mariarita, la figlia di Ciro Di Marzio.
«Il male trionfa sul bene. Al pari del tradimento sulla fedeltà. Fede e religione sono alibi per tacitare coscienze sporche. I sentimenti sono sempre torbidi. Quelli puri sono lusso che nella fogna antropologica di Gomorra nessuno può permettersi».
Il romanzo «Lo sciamano» si apre con una citazione criptica firmata Malleus Maleficarum: «La peggiore delle eresie è non credere all’opera delle streghe». Che cosa significa?
«È una frase che rimanda al fascino misterioso dell’esoterismo in cui opera Christian Costa»
Chi è Christian Costa?
«Il protagonista del romanzo. Un profiler, esperto di delitti rituali».
È lui, «Lo sciamano».
«Lo chiamano tutti così per via della sua metodologia non convenzionale».
Soggetto ruvido, ma non quanto Genny di Gomorra.
«Genny è una maschera che si è evoluta, o involuta, da stagione a stagione».
Quando decide di cambiare vita è un fallimento.
«Tenterà invano di diventare un imprenditore pulito. Ma alla fine il richiamo della foresta lo trascina alle origini».
Chiuso in un bunker sotterraneo, come un topo in trappola.
«I boss veri vivono così: ricchi di denaro, ma con un’esistenza miserabile. Si nutrono di potere e malvagità. Un veleno che li annienta giorno dopo giorno».
Da napoletano veneri Maradona. Anche lui si è annientato giorno dopo giorno.
«Ho conosciuto Diego di persona. L’ho abbracciato. Baciato. E quel giorno lo custodisco tra i ricordi più cari».
Cosa ti disse?
«Sono onorato di conoscerti».
E tu cosa gli rispondesti?
«Diego, stai pazziàn? (Diego, stai scherzando? ndr)».
Come stava fisicamente?
«Benissimo. Era sorridente, sereno».
Poi è finita nel modo tragico che sappiamo.
«Un lutto per chiunque è amante del calcio. Diego era un predestinato. Un bambino di 9 anni che in tv dice di avere due sogni: giocare un Mondiale e vincerlo. Li ha realizzati entrambi».
E Salvatore Esposito i suoi sogni li ha realizzati?
«Sto vivendo un momento felice».
Quand’è scattato l’interruttore che ti ha illuminato la vita?
«Avevo 24 anni. Mi sono detto: O lo prendo adesso, oppure perdo il treno».
E quel treno lo hai preso alla grande.
«Ho la fortuna di fare il lavoro più bello del mondo».
Ma non ti basta, ora c’è la sfida della scrittura.
«Questa è una passione più recente. La piena libertà creativa davanti a un foglio bianco è inebriante».
Maggiore all’emozione di recitare una scena che sarà vista da milioni di spettatori?
«È un’adrenalina diversa. Un gioco di squadra, dove però il valore aggiunto può venire anche dall’improvvisazione dell’interprete».
Tu e Marco D’Amore vi innervosite molto quando si dice che in Gomorra è evidente «l’assenza dello Stato».
«Chi lo sostiene è in malafede».
In che senso?
«È una critica faziosa e strumentale. A volte con arroganza i detrattori chiudono gli occhi sulla realtà. In Gomorra c’è l’arresto di Pietro Savastano, c’è un pm che indaga e arresta, ci sono i blitz della polizia, le retate. E questo cos’è se non la presenza dello Stato?».
Uno Stato che in alcuni frangenti (e, purtroppo, non solo nella fiction, come insegna la storia, vera o presumta, della trattativa Stato-Camorra) dà la sensazione di muoversi con le stesse dinamiche della camorra.
«L’ottica di riferimento di Gomorra è nella narrazione dal punto di vista dei cattivi. Ma anche i buoni non hanno l’esclusiva del bene. La natura umana è formata da poli negativi e positivi». I superuomini non esistono».
Nell’era del Covid, giusto e sbagliato si muovono lungo un crinale nebuloso. Lo «sciamano» è vaccinato o è un no-vax?
«Lui è un appassionato di complottismo, ma i negazionisti del Covid li considera alla stregua dei terrapiattisti: cioè una categoria fuori da ogni logica».
Le donne di Gomorra sfuggono alla trappola del politicamente corretto.
«Hanno un ruolo fondamentale. Operano su un piano di parità rispetto agli uomini. E li superano in cinismo».
Nella prima puntata di Gomorra 5, Genny vive in cattività e osserva da lontano moglie e figlio. Il bimbo chiede alla mamma: «Papà quando torna?». E la madre risponde: «Papà non tornerà più». La strada dei camorristi è senza ritorno?
«Nel mio primo libro, Non volevo diventare un boss (Rizzoli), ho cercato di spiegare ai giovani proprio questo. Se si ha la sfortuna di nascere in un ambiente dove domina la delinquenza, bisogna trovare la forza di reagire. Uscire dalla spirale dei facili guadagni e puntare su onestà, studio e lavoro».
Parli per esperienza personale?
«Sono figlio della Napoli popolare. Mi sono rimboccato le maniche. Faticando duro. Conosco il degrado sociale delle periferie. L’ho visto e respirato. Ma non l’ho mai accettato».
Su una copertina digitale della rivista Rolling Stone, rielaborata graficamente, Genny e Ciro si baciano sulla bocca. È un omaggio al mondo omosessuale?
«No. È solo un’immagine che rimarca il rapporto di dipendenza bipolare fra le psicologie di Ciro Di Marzio e Genny Savastano».
Nel film «L’eroe» interpreti la figura ambigua di un giornalista tra sete di scoop e crisi di coscienza. Qual è il tuo rapporto con i media?
«Ottimo. Sono attivo sui social, ma con le dovute cautele. L’informazione è una cosa seria. Concentrazioni di testate, potentati finanziari, ed editoria politicizzata mettono a rischio libertà e pluralismo».
Rispetto alla drammaticità di Gomorra si è sviluppato un genere parodistico seguitissimo sul web. I video del gruppo comico «The Jackal» sono super cliccati. Com’è nata questa collaborazione?
«In maniera naturale. Non c’è nulla di meglio che ridere insieme».
Sarà difficile mettere in archivio il personaggio di Genny?
«No. Bisogna guardare oltre. Sempre un passo avanti, tentando di spiegare l’inspiegabile. Con curiosità. Senza paura verso ciò che non si conosce. E osservando attentamente prima di elaborare strategie. Proprio come fa il mio alter ego sciamanico. Sarò grato eternamente a Genny per tutto quello che di grande mi ha dato. Ma anche io ho dato tanto a lui. Ora è tempo di dividerci.
«La fine del giorno è tutta qua», avrebbe concluso tuo padre Pietro.
«È tutta qua, rispondo io. Rubando la battuta all’immortale».