Il Messaggero, 20 dicembre 2021
A Natale, in Giappone, si festeggia l’amore
Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Un detto che in Giappone è semanticamente intraducibile. Primo perché né il Natale né la Pasqua sono giorni festivi (e non perché i giapponesi siano più attaccati al lavoro di noi: quanto a festività nazionali, ne hanno ben 16, tutte rigorosamente laiche, e noi appena 11 quasi tutte – tranne Primo Maggio, 25 aprile e 2 giugno – religiose: e in comune abbiamo solo il Capodanno). Secondo, perché il Natale (per la precisione, la vigilia) non è celebrato in famiglia. È la festa degli innamorati (o di chi spera di diventarlo). Una specie di San Valentino al contrario: il 14 febbraio sono le donne che invitano e fanno regali ai loro amati, a Natale sono i maschietti che devono organizzare la serata. Tant’è che ristoranti raffinati e soprattutto alberghi, da quelli di gran lusso ai più popolari – e fantasiosi – love hotel, sono prenotati con mesi di anticipo. La meta prediletta (non solo dai giovani)? Disneyland. Che ha riaperto da poco e registra per il prossimo weekend il tutto esaurito, con camere che si vendono a oltre 500 euro a notte.
Per il resto, il turista (pochi, visto che le frontiere sono chiuse) che giri per Tokyo in questo periodo non troverebbe grandi differenze con il resto del mondo. Trionfo di luminarie, vetrine addobbate, mercatini pieni di prodotti tipici (quest’anno vanno a ruba panettoni e pandori, un vero boom), Babbi Natale che si arrampicano dappertutto (ma non su/dai camini, che in Giappone non esistono). Completamente assente invece, la figura del suo collega locale, Hotei, il cosiddetto Buddha felice, una delle 7 divinità della Fortuna che è spesso ritratto con un sacco pieno di doni e attorniato da bambini.
Alla fine, niente vacanza (a meno che, come quest’anno, il Natale non capiti nel weekend) ma grande business per tutti, a cominciare dai grandi magazzini che finalmente, ora che lo stato d’emergenza è finito e che l’economia sta ripartendo (anche se molto più lentamente del previsto e auspicato), confezionano le loro bizzarre strenne. Oltre ai cosiddetti fukubukuro, i popolari sacchetti sorpresa, che fino a qualche anno fa erano tipici del Capodanno ma ora si trovano in vendita già da metà dicembre, i grandi magazzini offrono una vasta gamma di confezioni regalo che spesso vengono ordinati on line, indicando solo la cifra che si intende spendere, lasciando al negozio la liberà e convenienza – di scegliere cosa metterci dentro.
A me una volta è stato recapitato un bellissimo pacco contenente una bottiglia di pregiatissimo olio di oliva, dei buonissimi gianduiotti, e una orribile cravatta. Tutto rigorosamente made in Italy (o almeno così c’era scritto, sui vari prodotti). Ma come si dice anche qui, è il pensiero che conta. Ed il suo valore venale. E siccome in Giappone è profondamente shitsurei (maleducato, sconveniente) non provvedere ad un immediato o anche leggermente ritardato o-kaeshi (letteralmente, l’onorevole restituzione) che però non deve essere di valore troppo superiore o inferiore, uno dei grattacapi natalizi dei giapponesi e che si ripropongono in varie occasioni: matrimoni, funerali, nascite, chugen e oseibo, i tradizionali scambi di doni stagionali, in estate e in inverno – è quello di carpire il valore del pacco-regalo ricevuto. Molti negozi, per facilitare la cosa, lasciano tranquillamente l’etichetta del prezzo, cosa che da noi invece sarebbe decisamente shitsurei.
L’altro grattacapo natalizio per i giapponesi (soprattutto nelle grandi città) è quello di procurarsi il pollo. Che assieme al cosiddetto kurisumasu keki (Christmas’ Cake), una torta di fragole con panna, non può mancare sulla tavola di Natale. Attenzione, però, ci sono regole ferree. Il pollo deve essere rigorosamente fritto, e possibilmente prodotto dalla premiata e geniale nel suo oramai ultra cinquantennale marketing KFC, la mitica Kentucky Fried Chicken.
In crisi di astinenza per la mancanza di tacchini, nel dopoguerra gli americani dovettero cominciare ad accontentarsi dei polli, qui allevati in abbondanza, ma sempre e rigorosamente venduti a pezzi. Petti, cosce, alucce, fegatelli, persino zampette. Ma mai interi (ancora oggi è quasi impossibile trovarli, durante l’anno). A soddisfare i loro barbari appetiti ci pensò il mitico Colonnello Sanders, fondatore della KFC, che introdusse, per qualche anno, il menù occidentale: un bel pollo fritto intero, circondato da patatine e ketchup. C’era la fila, per il pollo intero, ma solo per un paio di giorni, e solo per i gaijin, gli stranieri. Ora i tempi sono cambiati: la sempre meno numerosa comunità anglosassone trova i suoi bei, giganteschi tacchini surgelati nei grandi magazzini, pagandoli a peso d’oro (ne ho visto uno di 5 Kg in vendita a 18.000 yen, 150 euro) mentre la KFC, divenuta nel frattempo giapponese (una società locale ha rilevato il marchio) è tornata al tradizionale pollo a pezzetti. E c’è la fila tutto l’anno.