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 2021  dicembre 20 Lunedì calendario

L’identikit del rider: 50 anni, laurea, figli e ansia

Nelle pubblicità delle app delle aziende che consegnano cibo a domicilio, i rider sono sempre giovani, di bell’aspetto, con il look un po’ hipster, sportivi e soprattutto felici di quello che fanno. Nei sondaggi finanziati e apparecchiati dalle stesse imprese, vengono fuori percentuali bulgare di gradimento delle condizioni di lavoro offerte, della cosiddetta flessibilità. È un racconto patinato che però viene ribaltato dalle ricerche indipendenti, dalle quali emerge – ovviamente – che in realtà chi trasporta pizze e sushi in bicicletta, e in generale chi opera attraverso le piattaforme digitali, percepisce la sua situazione come molto precaria e avverte per questo un rischio di rimanere disoccupato molto più alto di chi svolge altri mestieri. Insomma, gli impieghi nella gig economy risultano molto più “appetibili” per chi è in uno stato di necessità piuttosto che per gli appassionati di ciclismo desiderosi di gestire in autonomia il proprio tempo.
Lo conferma un articolo firmato da tre studiosi – Valeria Cirillo, Dario Guarascio e Fenizia Verdecchia – apparso sulla rivista dell’istituto pubblico di ricerca Inapp. Sono state intervistate circa 7.500 persone – non solo rider – sparse tra Italia, Germania, Spagna, Francia, Olanda, Polonia, Romania, Slovacchia, Svezia e Portogallo. Il primo risultato riguarda la tipologia di rapporto di lavoro adoperata dalle piattaforme: in tutti i Paesi tranne la Polonia è prevalente quella “non standard”. In pratica la maggior parte degli addetti è a tempo determinato, part time o inquadrato come autonomo. Insomma, le forme diverse dal più tutelato tempo pieno e indeterminato.
Se restiamo sull’esempio dei rider, infatti, in genere le multinazionali non li assumono, ma stipulano con loro contratti di collaborazione autonoma, senza stipendi orari e con retribuzioni commisurate al numero di consegne effettuate. Ed è proprio questa una delle caratteristiche magnificate dalla propaganda delle multinazionali: la libertà di scegliere quando lavorare, la possibilità di auto-determinarsi senza l’assillo di turni prestabiliti dall’azienda; vantaggi per i quali si dovrebbe essere pronti a sacrificare la sicurezza economica. La subordinazione accusata di essere una specie di prigione dalla quale evadere.
La narrazione per cui i rider vivono questa situazione come un’opportunità e non come un problema è nettamente sconfessata dalla ricerca. Il 69,2% dei lavoratori su piattaforma si è detto “molto preoccupato” di cadere nella disoccupazione nei successivi dodici mesi, mentre solo il restante 30,8% è “poco preoccupato”. Quello che potremmo ribattezzare, semplificando, il “tasso di ansia” è superiore rispetto a quello dei lavoratori non standard in generale: tra loro quelli molto timorosi di restare senza lavoro si “fermano” al 65,7%. Decisamente più bassa, seppur significativa, è invece la paura registrata tra gli addetti con contratti standard, che presentano una percentuale del 54,2%.
Ma chi sono questi lavoratori su piattaforma? Sono davvero tutti ragazzi tra i venti e i trent’anni atletici e sorridenti? Non sempre, anzi la percentuale che si colloca tra i 36 e i 55 anni è rilevante in tutti i Paesi. In Italia, per esempio, in quella fascia si raggiunge il 49,1% degli occupati, a fronte del 42% di under 35. Il 50% ha una laurea mentre il 45,5% si è fermato alle superiori. Molto rilevante è la presenza di stranieri, cioè quelli nati in un Paese diverso da quello in cui lavorano: mentre nel totale degli intervistati questa si ferma al 7,7%, tra i lavoratori su piattaforma arriva al 13,3% considerando chi svolge quell’impiego come attività principale.
E ancora: sempre in Italia, il 40,2% è sposato o convivente con figli, ma i ricercatori definiscono “rilevante notare come una quota non marginale di non-standard worker e di lavoratori delle piattaforme rispetto alla quota di intervistati sia single con a carico dei figli, sottolineando quindi ancora una possibile relazione tra situazioni di fragilità socio-economica, partecipazione all’economia delle piattaforme e avere un contratto non tradizionale”.
Le piattaforme, insomma, non sembrano la nuova frontiera dell’occupazione, ma un settore nel quale si annida una fetta molto vulnerabile della forza lavoro. Su questa consapevolezza, due settimane fa la Commissione europea ha approvato la direttiva che imporrà alle piattaforme di assumere come dipendenti i rider e tutti i “falsi autonomi” impiegati. Basterà dimostrare l’esistenza di due tra i tanti indicatori di subordinazione elencati nel provvedimento e scatterà l’obbligo di regolarizzare.
In Italia solo Just Eat ha garantito contratti da dipendenti ai suoi fattorini, le altre proseguono con il modello del precariato estremo, forti di un contratto di comodo firmato con il sindacato Ugl e ancora applicato nonostante sia stato bocciato da magistrati del lavoro e amministrativi, oltre che dal ministero del Lavoro.