La Stampa, 20 dicembre 2021
La povertà a Milano. Reportage
Marina ha lasciato la provincia romana vent’anni fa per scappare da un uomo violento che minacciava lei e suo figlio. Oggi Marina vive a Baggio, periferia occidentale di Milano, in una casa di quaranta metri quadri appena. Il figlio dorme sul divano letto e non vuole che la madre lo chiuda al mattino «perché è la sua stanza - dice Marina - se ogni giorno lo ripiego e lo rimetto a posto dice che si sente un ospite». La sua stanza è quel divano aperto tra la tv e l’angolo cottura.
Alle tre del pomeriggio, la casa profuma di sugo. L’acqua è sul fuoco da un po’, Marina aspetta che torni il ragazzo che ha da poco ripreso a lavorare come autista per le mense scolastiche. È stato fermo, senza stipendio, durante tutti i mesi di lockdown e di scuole chiuse. Anche lei è rimasta a casa, lavorava come cameriera ai piani in un hotel del centro. Dice: «Lo sai quanto costa la tessera mensile dei mezzi pubblici? Quaranta euro». Alla fine delle prime chiusure, con la cassa integrazione che non arrivava, non aveva risparmi neanche per comprare un biglietto giornaliero della metro per raggiungere il centro città: quattro euro. Marina ha un contratto a tempo indeterminato, «pensi che questo mi renda più fortunata di altri, ma è un’illusione». Nonostante le garanzie previste dal suo contratto, l’anno scorso per i sussidi ha aspettato mesi e ha dovuto chiedere un aiuto per mangiare, diventando, come migliaia di altri a Milano, beneficiaria di un pacco alimentare settimanale.
Tentenna Marina, omette, menziona la sua storia come una storia comune, il destino di molti: «Ho visto tante facce che conosco in coda per il pacco. Non sono mica la sola«. Non lo è, ma ribadirlo le serve a sottolineare quanto diffusa sia la povertà alimentare a Milano, certo, ma anche a condividere un imbarazzo. Ho bisogno d’aiuto, dice il suo volto, ma almeno non sono sola, «anche la Alessia ha bisogno, me l’ha detto lei che al parco il sabato mattina distribuiscono le scatole, non ho problemi solo io».
Mal comune, mezzo gaudio.
Ora ha ripreso a lavorare, ma al pacco alimentare non rinuncia perché ha debiti da ripagare, eredità del 2020, e «perché non si sa cosa succederà domani».
Intanto la pentola a bollire sul fuoco è il solo angolo caldo di casa. Marina ha due maglioni, la felpa e la sciarpa. I pantaloni della tuta sono lisi all’altezza delle ginocchia e il colore sbiadito di un capo lavato troppe volte.
Nel 2016, gli economisti e ricercatori Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi hanno mappato alcune città metropolitane italiane, mettendo a confronto Roma, Milano, Napoli e Torino. Nel libro Le mappe della disuguaglianza (Donzelli), analizzano i dati e le conclusioni che propongono, riflettono le realtà di grandi centri urbani caratterizzati da una comune natura multi dimensionale delle disuguaglianze: elevati differenziali nei livelli di istruzione, nella dotazione di servizi, delle attività culturale, dunque di opportunità economiche. Disuguaglianze che non solo coesistono le une con le altre, ma si alimentano a vicenda.
Milano ha una popolazione residente di un milione e trecentomila abitanti, la metà di Roma. È sette volte più piccola della capitale, ed è la città più ricca d’Italia, con una dichiarazione reddituale media di 36 mila euro, otto mila euro più di Roma «eppure mantiene i medesimi problemi di disuguaglianze strutturali - spiega uno degli autori, Salvatore Monni, economista dello sviluppo - paradossalmente la presenza di redditi molto elevati a volte impedisce di vedere. Nelle città più povere è più facile immaginarci queste disuguaglianze, in città con più benessere, proprio in virtù della loro ricchezza, siamo portati a vedere le luci splendenti. Questo è il periodo dell’anno in cui le luci sono più splendenti: forse è la ragione per cui non ci accorgiamo di queste differenze».
Differenze che continuano a crescere. Estremità che continuano ad allontanarsi.
Secondo il rapporto Censis-Tendercapital Inclusione ed esclusione sociale: cosa ci lascerà la pandemia, pubblicato pochi giorni fa, più si protrae l’emergenza da pandemia, più tutte le persone che vedono drasticamente ridurre i propri risparmi saranno esposte al rischio di finire in povertà assoluta. Nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,3 per cento della popolazione residente in Italia. Oggi, sedici anni dopo si trova nelle medesime condizioni il 9,4 per cento della popolazione. Cinque milioni e mezzo di persone, il 22 per cento più dell’anno scorso. Tra loro un milione e trecentomila bambini. «La maggioranza delle persone che aiutiamo è composta da giovani, tante sono donne. Molte di loro sole con bambini», dice Francesca Agnello, la responsabile del progetto Nessuno Escluso, un programma di supporto alimentare che va avanti da giugno del 2020.
All’inizio della pandemia, i volontari di Emergency si erano messi a disposizione per andare a fare la spesa alle famiglie e soprattutto agli anziani che non uscivano di casa per paura del contagio. Prendevano le liste della spesa, i loro soldi e tornavano a casa con le buste e il resto del denaro. Poi, man mano che passavano le settimane, tutti hanno cominciato a chiedere di togliere qualcosa. Prima il deodorante, lo shampoo, i prodotti per l’igiene, e poi le cose più costose da mangiare, come l’olio, il caffè: i volontari hanno capito che a quelle rinunce corrispondeva una mappa che, a seguirla, portava dritta alle nuove povertà. Famiglie che hanno smesso di pagare l’affitto, il mutuo, le bollette. «Persone che vivono nella costante incertezza di portare a casa qualcosa da mettere in tavola – continua Francesca Agnello – così abbiamo istituito un centralino aperto tutti i giorni, stilato una lista di beneficiari cui consegniamo gratuitamente pacchi che contengono cibo secco, talvolta anche frutta e verdura. Ogni settimana aiutiamo 1300 famiglie». Come quella di Adriana. Madre sola di due figli, una ragazza di 27 anni e un ragazzo di 18. Adriana è nata e cresciuta a Quarto Oggiaro, un tempo quartiere frontiera alla periferia nord occidentale di Milano: spaccio, malavita, occupazione abusive. Quarto Oggiaro oggi è una piccola città di 35 mila persone e, sebbene l’amministrazione si sforzi di emanciparla dall’etichetta di area degradata (Quarto Oggiaro è anche un quartiere vivo e ricco di attività sociali e culturali, frutto della collaborazione tra istituzioni, associazioni e cittadini) lungo le sue strade si incontrano i volti segnati dalla crisi e dalle ingiustizie sociali. Comequello di Adriana. «La gente ha cominciato ad andare all’Esselunga, aprire i pacchi di cibo, mangiarli lì e poi tornare a casa – racconta - le persone qui sono sempre le stesse, e se qualcuno arriva a mangiare al supermercato perché non ha niente, vuol dire che non ha ricevuto aiuti. Questa è la discriminazione». Adriana lavora in un’impresa di pulizie dal 1999. La sua famiglia è andata avanti con 1000 euro al mese per tanto tempo. Quando è iniziato il lockdown, la ditta le ha dimezzato le ore di lavoro, quanto più passavano le settimane, tanto più si svuotava la dispensa. Così ha presentato la sua situazione a Emergency e ha iniziato a ricevere il sussidio settimanale. Dice: « È un grande aiuto sapere che puoi mettere sempre in tavola un piatto di pasta, che non muori di fame. Vai avanti anche se non hai la bistecca, la pasta ti fa andare avanti lo stesso». La sua preoccupazione non era sfamarsi, ma pagare gli studi di sua figlia, farla laureare. Anche in questo caso le differenze tra centro e periferia sono nette, a Pagano e Nocetta, due zone centrali della città ci sono sette volte i laureati di Quarto Oggiaro. È per stringere questa forbice, per sostenere il riscatto di sua figlia, che Adriana ha cercato lavoro a ogni angolo.
Da qualche mese, fa le pulizie a casa di un medico, ma gli ha detto di abitare «vicino all’ospedale Sacco, ancora adesso se dici che abiti a Quarto Oggiaro ti guardano come se arrivassi dal terzo mondo».
Per dare una possibilità a sua figlia, per non vanificare gli impegni degli ultimi anni, Adriana ha fatto ogni lavoro che ha trovato: accompagnare gli anziani dal medico, la badante, le pulizie anche la sera tardi e la mattina presto, stirare per cinque euro l’ora. Vederla laureata era il suo unico obiettivo. Per questo, quando non lavorava, durante il lockdown, pensava solo a come pagare la retta della scuola paritaria per traduttori e interpreti, le due rate che mancavano per farle finire gli studi. Un totale di otto mila euro. «Alla scuola non interessava se lavoravi o no, la retta è quella e se non paghi non entri, e anche questa è discriminazione sempre più accentuata, sempre più incisiva, e ne fanno le spese i giovani», dice .
L’8 novembre scorso, la figlia di Adriana si è laureata. Insieme hanno brindato, hanno pianto. Hanno gioito, soprattutto. Adriana dice che sua figlia era bella, che nelle avversità ce l’avevano fatta, insieme. E che lei, sua figlia, «è brava, proprio brava». È proprio brava, ma rischia di restare bloccata in una trappola territoriale che impedisce la mobilità sociale perché, come ricorda l’economista Salvatore Monni, «Milano produce una ricchezza importante, il reddito medio più alto del paese ma questa ricchezza non riesce ad arrivare a tutti. C’è un problema nel nostro modello di sviluppo». Un modello di sviluppo che si è inceppato sulla soglia della redistribuzione del reddito anche a Milano, una città che genera ricchezza ma la ripartisce in modo disomogeneo, allontanando sempre di più chi ha opportunità da chi non le ha né le avrà. Generando a caduta una povertà che va guardata negli occhi, blu profondo di malinconia e tenacia, come quelli di Adriana.
Seduta al sole del parco di Quarto Oggiaro, di fronte alla sede dell’associazione che distribuisce i pacchi alimentari, dice: «La periferia è sempre periferia, e loro, i ricchi, pensano sempre: quelli in periferia sono abituati così, si arrangiano e ne vengono fuori. Ma siamo tutti esseri umani, c’è chi ha lavorato tanto e fa successo e c’è chi lavora e va avanti con dignità. E così alla persona gliela togli la dignità».