La Stampa, 20 dicembre 2021
I 50 anni di Medici Senza Frontiere
Zubair che a soli quattro mesi di vita arriva all’ospedale di Herat con mamma Parisa e poche speranze di uscirne, pesa appena due chili, la polmonite non dà tregua, il corpo minuscolo pare di bambola. Zubair che invece ce la fa, che in un paio di settimane riprende peso e può rinunciare all’ossigeno, che tornerà a casa sebbene la sua casa significhi poco più di un tetto in una terra perduta.
Se chiedi cos’è che a cinquant’anni pressoché suonati tiene Medici senza frontiere ancora in trincea e la risposta è Zubair. L’Afghanistan non è un Paese per bambini, come non lo è per donne, uomini, ragazze, ragazzi, vecchi. Non lo è per nessuno. Da quando ad agosto i taleban sono tornati al potere hanno fatto le valigie in tanti, operatori umanitari, lavoratori stranieri, la meglio gioventù locale. Qualcuno, laddove a un certo punto bisognerà raccogliere i cocci, è rimasto. Anche per Zubair.
Dopodomani Medici senza frontiere compie mezzo secolo ma i suoi oltre 65 mila inviati negli angoli più miserevoli del pianeta hanno poco tempo per festeggiare. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, all’indomani della guerra del Biafra, un gruppo di dottori e giornalisti, tra cui Bernard Kouchner, fondava a Parigi l’organizzazione non governativa che avrebbe poi portato cure e medicine in Ruanda, in Indonesia, ad Haiti, in Siria, nel Mediterraneo dei migranti alla deriva, dove sei mesi fa, dopo uno stop dovuto al Covid e al clima avvelenato dalla criminalizzazione delle Ong, la nave di Msf «Geo Barents» è tornata a soccorrere i relitti che la politica vorrebbe abbandonati in Libia. Eppure, se la scommessa di quel lontano 22 dicembre 1971 era rendere il mondo un po’ meno schiavo del bisogno sanitario siamo purtroppo lontani. Nelle regioni più periferiche degli 88 Paesi serviti da Msf, di cui alcuni poverissimi, le strutture di cura sono, assieme a quelle di altre Ong, uno specchio d’acqua nel deserto. Parliamo di persone ma anche di numeri, 10 milioni di visite mediche l’anno, 306 mila parti, un milione di vaccinazioni contro il morbillo, 15 mila ricoveri per Covid.
Ci sono stati momenti gloriosi come il Premio Nobel per la Pace, ricevuto nel 1999. Erano gli anni in cui l’umanitario passava per un mestiere ambito, come se, lasciatosi alle spalle il secolo breve, il mondo cercasse il riscatto post ideologico nell’impegno sul campo, il volontariato, la messa in pratica della lezione fisica di Edward Lorenz sull’«effetto farfalla». Poi la Storia non è finita e non sono finite guerre né carestie, è finita invece la spinta sociale verso il bene e dopo la crisi economica del 2008 ci siamo ritrovati di colpo più populisti, più egoisti, più sospettosi dell’altruismo al punto da finanziarlo meno se non addirittura da additarlo come "responsabile" delle migrazioni del nostro scontento. Anche Msf ha pagato il prezzo del calo delle donazioni, ma resta al fronte.
E sì, Zubair è la risposta.
«La malnutrizione azzera il sistema immunitario e i bassi tassi di vaccinazione fanno il resto, è così che i bambini in Afghanistan muoiono di patologie altamente contagiose ma curabili come polmonite, bronchiolite e diarrea» ci dice Gaia Giletta, la dottoressa italiana responsabile dell’ospedale di Herat, uno dei 5 presidi afghani di Msf dove le famiglie arrivano percorrendo anche 200 km su taxi pagati profumatamente perché certi di trovarvi l’introvabile, personale e medicine. È qui che Zubair ha ripreso fiato, e non serve soffiare sulle candeline.