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 2021  dicembre 20 Lunedì calendario

Intervista a Shmuel Peleg , il nonno di Eitan

PETACH TIKVA (TEL AVIV) — Fissa lo schermo con la chiamata persa dal cellullare di Amit, alle 10.10 del 23 maggio. Poco dopo, si sarebbe spezzata quella maledetta fune e con essa 14 vite. «Avevamo parlato la sera, quella mattina ci siamo rincorsi e poi è stato troppo tardi». Shmuel Peleg parla dall’abitazione nei pressi di Tel Aviv, dove l’11 settembre, con un jet privato via Lugano, il piccolo Eitan è stato «riportato a casa», nella versione del nonno; «sequestrato», secondo le carte degli inquirenti che descrivono un «certosino piano di esfiltrazione» dei cui elementi Peleg non fornisce ulteriori dettagli «perché soggetti a indagine penale».
Come si svolge la comunicazione con Eitan da quando lui è in Italia?
«Aya (la zia paterna, ndr) ci ha mandato un sms stabilendo che Eitan può parlare con noi due volte a settimana e solo due persone a volta.
Penso che abbia ripreso la scuola perché l’ho visto con il grembiule. Ha smesso di muoversi con il girello. Ma ogni cosa la veniamo a sapere a posteriori».
Venerdì i giudici hanno accolto il vostro reclamo di nominare un tutore terzo. Non pensa che se avesse atteso i tempi della giustizia le cose avrebbero preso una piega diversa?
«La decisione di venerdì ci dà una prima speranza. In una situazione così tesa, da subito abbiamo chiesto la nomina di una parte terza. Perché Aya può accedere al cellulare di mia figlia Tal, che abbiamo dovuto darle come parte dell’inventario? Sembra un piccolo dettaglio, ma per noi è uno dei ricordi che abbiamo di lei. A chi parla di interessi economici (per futuri risarcimenti a Eitan, ndr): dall’inizio abbiamo chiesto che tutti i beni venissero custoditi da una parte neutrale, cosa che finalmente accadrà ora. Io voglio essere parte della vita di Eitan, un nonno che sta accanto al nipote che ha vissuto la peggiore delle tragedie. È l’unica cosa che mi interessa. Speriamo ora si esamini a fondo quale sia il bene del bambino e si possa riconsiderare quanto avvenuto a Torino il 25 maggio (oggetto di ricorso in Cassazione, ndr)».
Cosa è successo il 25 maggio?
«Quando arrivo a Torino la mattina dopo la tragedia, siamo uniti nel lutto. Con Aya ci abbracciamo, capiamo che dobbiamo cooperare.
Lei rimane in ospedale, io mi occupo dei funerali. Ho accettato la loro richiesta che la sepoltura avvenisse vicino a casa Biran in Israele. Fu un primo compromesso, ma ci siamo raccordati in fretta. La sera Aya mi avverte che l’indomani, a due giorni dal disastro, sarebbe venuta in ospedale una giudice. Lì ancora non avevo la minima idea della terminologia, ma abbiamo stabilito insieme che era sensato che lei assumesse la responsabilità delle decisioni mediche».
Cosa ha portato alla rottura?
«Le ho detto subito che il bambino deve crescere in Israele, lei mi ha risposto che erano consapevoli che le cose ora erano cambiate, ma se non avessimo preso una decisione congiunta, ci sarebbe stato il rischio che Eitan venisse dato a una famiglia estranea. Non capivo perché questa responsabilità non potesse essere congiunta tra noi, ma mi sono fidato, ne è prova il fatto che sono arrivato alla famosa udienza in ospedale senza interprete né avvocato. Per me valeva quello che ci eravamo detti con Aya: non parlo la lingua, la mia testa era altrove, con il bambino in rianimazione, il rimpatrio delle salme, i funerali. Dopo un’udienza di 20 minuti, mi viene confermato che si tratta di una cosa temporanea.
Torno in Italia il 30 dopo i funerali e lì capisco che le cose erano cambiate mentre stavo seppellendo i nostri cari. Stento a credere che in 20 minuti si possa stabilire il futuro di un bambino orfano in rianimazione».
Ora c’è un’indagine penale, mandati di arresto internazionale.
Rifarebbe quello che ha fatto?
«Certo che no. Quello che sapevo allora non è quello che so ora.
Solamente durante il processo in Israele è emerso il decreto che stabiliva l’espatrio solo accompagnato da Aya. In quel momento avevo davanti un bambino che volevo salvare perché non mi veniva data nessuna garanzia di collaborazione con noi sulle decisioni sul suo futuro».
Ha paura di essere arrestato?
«Molta. Mi sconvolge la possibilità che possano bussare alla porta e arrestarmi. Sono stato interrogato due volte dalla polizia israeliana, tutto quello che ho detto qui lo ripeterò alle autorità italiane. Ma la cosa che più mi addolora è che non posso vedere Eitan. Ne abbiamo passate così tante in questi sette mesi, che non so cos’è peggio. Ho perso cinque familiari, tre generazioni, ora Eitan è lontano da me. La mia salute e il mio futuro vengono in secondo piano».
Come manterrà il rapporto con Eitan?
«Confido nel sistema giudiziario italiano che ora si occupi del suo bene. Questa è la priorità. Coltivo dentro di me la speranza che possano considerarlo un caso umanitario, di un nonno che ama suo nipote. Spero mi verrà data la possibilità di vederlo».
Se continuate a colpi di denunce e ricorsi, non temete che Eitan possa essere affidato a terzi?
«Non voglio nemmeno pensarci.
Speriamo si possa arrivare a una mediazione. Ci aspettiamo una verifica scrupolosa di assistenti sociali e psicologi terzi — e non unicamente quelli nominati da Aya — che prendano in esame la condizione di Eitan e i contesti famigliari di ambo le parti per stabilire quale sia il suo bene. Se verrà stabilito che deve vivere in Italia con accordi di visite prestabiliti, lo accetteremo».
Lei ha detto: “Quando Eitan crescerà dirà che l’ho salvato”. E da cosa?
«Non sostengo che Aya gli facesse del male, o che non se ne prendesse cura. Ma il fatto stesso che volesse limitare i contatti tra Eitan e noi o escluderci dalle scelte che lo riguardano, come ha fatto dall’inizio, non è nell’interesse di mio nipote. Ha già perso i genitori, non potrà più avere fratelli. Perdere ora una parte della famiglia, è un’altra tragedia. È questa esclusione che ha scatenato tutto dall’inizio».
Perché dubita del fatto che possa vivere una vita serena in Italia, dove è cresciuto da quando ha 2 mesi?
«Eitan è un bambino israeliano, ebreo, qui ha le sue radici e una famiglia ramificata. I suoi genitori sarebbero tornati a vivere in Israele.
Non è un caso che siano sepolti qui.
L’Italia è un posto meraviglioso, ma si è sempre trattato di una relocation, non di una scelta di vita».
È possibile una riconciliazione con i Biran?
«Difficile pensarlo ora. Ma una parte terza, dopo che verrà stabilito dai tribunali italiani qual è l’interesse superiore del bambino, dovrà mediare e verificare come entrambe le famiglie possano stargli accanto, senza che debba perdere nessuno, perché ha già perso troppo».