Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2021
La storia di Procida
Fu nella notte dei tempi che nacque Procida, l’ isola proiecta, come scrive Plinio quando ne vuole spiegare il nome, lanciata in alto, vomitata da Ischia in uno dei ricorrenti sussulti del suo vulcano mentre intorno tutto tremava.
Accadde, forse, negli stessi giorni in cui Flegra (così venivano chiamati in antico i Campi Flegrei, lo spazio ancora oggi tellurico e fiammeggiante che tra terra e mare circonda Napoli e il suo golfo) divenne teatro di una spaventevole battaglia, o piuttosto di una disperata rivolta. I Giganti, che Zeus voleva tenere lontani dal suo mondo immortale, si ribellarono al giovane dio che ostentava la potenza tranquilla di un nuovo ordine dopo il caos delle origini, e tentarono un ultimo assalto al cielo, un’ultima battaglia nel nome della libertà del disordine. Persero, come è ovvio, in una lotta impari e violenta, precipitando nelle più profonde viscere di una terra che essi, i Giganti, forse continuano ancora ad agitare con la loro antichissima rabbia.
Uno dei più valorosi tra loro, Tifeo, riposa, infatti, sotto l’isola di Ischia. Un altro, Mimante, colpito con un masso incandescente da Efesto, giace, invece, nel fondo del mare di Procida e increspa, con i leggeri sussulti del suo sonno, le acque di quella magica insenatura della Corricella che tutti abbiamo imparato a conoscere da quando questa isola di quattro chilometri quadrati, questa roccia, figlia della lava e della passione dei Giganti, è stata chiamata ad essere, per un anno, capitale italiana della cultura.
Questa lillipuziana capitale si presenta al visitatore come la rete che i pescatori gettano in acqua e nelle sue trame cercano poi il magro pescato di una giornata di lavoro: una nassa, insomma, di strade e di vicoli che si arrampicano su questo frammento di lava e ne raccontano la storia seguita alle incandescenti battaglie della Gigantomachia. Invano, percorrendo quelle strade, si vede il mare. Lo nascondono le alte mura delle sue case, che celano spesso preziosi giardini e orti rigogliosi. Costruite così per proteggersi dal pericolo degli assalti saraceni e, più tardi, dalla curiosità di chi avrebbe potuto disturbare la quiete di uomini che avevano alle spalle mesi, se non anni, di lunghe navigazioni.
È un mare lontano, ostile talvolta, quello che alimenta i racconti di Procida, smozzicati non sempre volentieri da marinai che hanno trascorso più tempo su velieri che solcavano il Mediterraneo o su mercantili a vapore che si avventuravano fino a Capo Horn o alle Molucche, che nelle case messe su con i mattoni di quell’esilio. In quelle case le donne, sovrane di un regno disabitato, ne aspettavano il ritorno, provando a leggere nel “quatriddo”, il reliquiario della Madonna dei Sette veli sfogliato con secolare sapienza, la sorte dei loro mariti, dei loro figli lontani. E quando la notizia era priva di ogni speranza, queste silenziose Penelope di mille Ulisse stendevano sul pavimento gli abiti del morto e affidavano al “ruopeto”, ad una lunga veglia funebre l’impossibile accompagnamento dell’assenza.
Su queste vite e sui loro dolori veglia da sempre l’Arcangelo Michele, che nel dipinto seicentesco, collocato nell’Abbazia benedettina posta sulla parte più alta dell’isola, sembra evocare il mito antico. In un cielo carico di lampi, sguainando una spada lucente, Michele mette in fuga i vascelli con i quali Kayr ed-Din, il pirata ottomano celebre come il Barbarossa, intendeva nel 1534 conquistare Procida e far schiavi i suoi abitanti. Ai Giganti colpiti dai fulmini degli Dei fa eco, dunque, l’Arcangelo celeste che annienta gli infedeli con la stessa forza con la quale, in un altro racconto delle origini, in un’altra divina rivolta, aveva rovesciato agli Inferi Lucifero e i suoi angeli ribelli.
Ribelli, inquiete, certo in attesa rimangono, invece, le esistenze trascorse dai tanti che negli ultimi due secoli, fino al 1982 per l’esattezza, hanno abitato il carcere di Procida, il massiccio edificio del cinquecentesco e splendido Palazzo d’Avalos, che rappresenta il più moderno e drammatico dei percorsi mitici di quest’isola. Come i marinai, anche i carcerati amano parlare poco. Dei loro racconti abbiamo rari esempi, scovati con pazienza negli ultimi anni da chi ha saputo cercare e ascoltare. Per due secoli, attraverso le sbarre, uomini senza libertà ne intuiscono la forma guardando il movimento di un mare splendente.
Lo stesso mare che separa Graziella, la fanciulla procidana del romanzo ottocentesco di Lamartine, eroina oggi di una indiscussa mitologia isolana, dal giovane francese partito promettendole di ritornare: figlia anche lei di una ribellione e condannata anche lei alla irrequietudine dell’attesa.