Il Messaggero, 19 dicembre 2021
Chi era Charles De Gaulle
Il 21 dicembre 1958 Charles de Gaulle divenne presidente della Repubblica francese. In un periodo in cui la nostra politica sembra commissariata, e il Parlamento affievolito, vale la pena di rievocare, nell’imminenza dell’anniversario, questa straordinaria e controversa figura.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale era un semplice colonnello, sostenitore dell’uso dei carri armati come Basil Liddell Hart in Inghilterra e Heinz Guderian in Germania. Non era stato ascoltato, e nel giugno del 40, con una geniale guerra lampo, i tedeschi erano entrati a Parigi. Si rifugiò a Londra, da dove incitò alla Resistenza, e per tutta risposta la Corte marziale di Philippe Pétain lo condannò a morte per tradimento. Tornò in patria al seguito degli angloamericani, costituì un nuovo governo, fu licenziato dal popolo due anni dopo, e si ritirò a scrivere le memorie. Nel 1958, logorata dalla guerra in Algeria, la Francia lo richiamò. Deludendo i suoi sostenitori, il presidente concesse l’indipendenza alla colonia. Vari attentati dell’Oas, l’estrema destra ultranazionalista, non lo scossero, ed anzi ne aumentarono la volontà di dotare la Quinta Repubblica di una nuova Costituzione.
Aveva una personalità imponente quanto la sua statura e il suo naso, ed era coerente nelle sue apparenti contraddizioni. Cattolicissimo, alla liberazione di Parigi rifiutò l’incontro con il cardinale Emmanuel Suhard, primate di Francia, per la sua collaborazione con Pétain. Anticomunista feroce, fu tra i primi a riconoscere la Repubblica Popolare Cinese e a criticare l’intervento americano in Vietnam. Politico accorto, fece delle gaffes colossali, come quando irritò il Canada inneggiando al Quebec libero.
PARADOSSIAmico di Churchill, che volle decorare di persona, impedì l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee considerandola una longa manus degli Stati Uniti. Con questi ultimi i rapporti furono complessi, ai limiti della conflittualità. De Gaulle non accettò mai – al contrario degli inglesi – la realtà uscita dalla seconda guerra mondiale: che la Francia era diventata una potenza di second’ordine, mentre gli Stati Uniti avevano assunto la guida del mondo libero dall’aggressività staliniana. La sua antipatia – apertamente ricambiata – nei confronti di Roosevelt, gli ispirò dei comportamenti quasi meschini. Quando, per gentile concessione di Eisenhower, le truppe di Leclerc sloggiarono da Parigi i rimasugli delle retroguardie naziste, De Gaulle pronunciò un discorso tanto solenne nella forma quanto deplorevole nella sostanza. Esordi quasi sconsolato: «Parigi oltraggiata, Parigi violentata, Parigi martirizzata», e poi con un sospiro radioso proseguì: «Ma Parigi liberata! Liberatasi da sola!». E qui una pausa. Poi l’incredibile fanfaronnade: «Liberatasi con il concorso della Francia intera, della Francia eterna». Neanche una parola sulle migliaia di ragazzi morti sulle spiagge di Omaha e nel bocage della Normandia. Alcuni storici sostengono che questa omissione servisse a ristabilire l’autorità del suo nuovo governo contro le velleità rivoluzionarie dei partigiani comunisti. In parte è vero. Ma è altresì vero che l’antipatia verso gli americani aveva radici assai più profonde.
LA SFIDAQuando, nel 1966, la Francia uscì dal comando militare della Nato e il Generale intimò agli americani di andarsene immediatamente dal territorio, un diplomatico chiese se l’ordine comprendesse anche le salme dei soldati sepolti a Colleville, il cimitero che il mondo conosce attraverso le immagini del film sul soldato Ryan, e che non si può visitare senza sentire un groppo alla gola. De Gaulle dovette incassare l’umiliazione, e oggi quel luogo sacro è, a tutti gli effetti, territorio americano.
Al netto di queste, e di mille altre idiosincrasie, fu forse, dopo Churchill, il più autorevole politico europeo del ventesimo secolo. Nel giugno del 1940 fu l’unico francese a comprendere l’importanza di un governo in esilio. Organizzò a Londra un servizio segreto e un reticolo amministrativo personale per avere, al momento della vittoria, un assetto politico già collaudato e sotto il suo controllo. Dopo la liberazione del 44 presiedette a una transizione ordinata e relativamente indolore, e impedì che l’epurazione, per quanto severa, diventasse un’indiscriminata vendetta feroce. Quando nel 46 si ritirò a vita privata, non brigò per tornare al potere, convinto di aver dato alla Francia il meglio di sé, e disposto, se necessario, a venirle di nuovo in soccorso. Richiamato all’Eliseo dalla necessità, diede alla Quinta Repubblica una Costituzione che assicurò, e continua ad assicurare, ordine e stabilità, senza indulgere ai capricci di una scapigliata e corrosiva partitocrazia.
LE CONTESTAZIONIDavanti alle contestazioni del 68 non tentò una conciliazione penitenziale con gli esaltati allievi di Jean Paul Sartre, si appellò al popolo e stravinse le elezioni. Quando, l’anno successivo, una sua proposta di modesta riforma fu bocciata, fece quello che aveva promesso in caso di sconfitta: si ritirò in silenzio nella sua casa di Colombey. La morte lo colse poco dopo non da generale, che, diceva Patton, vorrebbe andarsene con l’ultimo proiettile dell’ultima battaglia dell’ultima guerra. Lo colse da scrittore, quale in effetti era, e che tra i memorialisti fu superato solo da Churchill per eleganza di stile: mentre sfogliava i suoi appunti di memorie, reclinò il capo senza soffrire. Oggi i francesi lo considerano, per la loro storia, più rilevante di Napoleone.
IL DILEMMAÈ una bella questione se siano gli uomini a fare i tempi, o viceversa. Probabilmente i migliori intelletti politici maturano nelle difficoltà e nelle guerre, mentre si atrofizzano nella beatitudine della pace. Non è un caso che alla fine del secondo conflitto l’Europa avesse, oltre a Churchill e a de Gaulle, personalità come Adenauer, De Gasperi, Saragat, Togliatti, Terracini e tanti altri colossi. Naturalmente preferiamo una classe politica più modesta, se questo è il prezzo della pace e della prosperità. Tuttavia la lezione di de Gaulle è importante almeno per due ragioni. La prima, che l’identità della Nazione e della propria cultura non può esser subordinata né alle alleanze militari né tantomeno a quelle economiche. E la seconda, che la frammentazione dei partiti non può compromettere la stabilità e l’efficienza del governo. De Gaulle sapeva che quanto più un Paese è complesso e composito per tradizioni e abitudini, tanto più è difficile guidarlo. «È quasi impossibile disse governare un popolo che ha duecento tipi di formaggi». Considerato che il Veneto, da solo, ne annovera un numero anche maggiore, possiamo capire le difficoltà dei nostri politici nazionali. Ma proprio per questo li invitiamo a studiare le memorie del Generale.