il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2021
Intervista ad Alessandro d’Alatri
La droga, la sua droga, la droga “più bella, più potente, più pesante per chi è in questo mondo” l’ha scoperta ad appena otto anni “quando sono salito su un palco teatrale e lì ho conquistato il primo applauso; (pausa) come l’applauso non c’è niente”. Da allora, Alessandro D’Alatri, ha percorso ogni millimetro quadro della scala valoriale del successo, ha sentito su di sé il calore dei riflettori e il rischio di bruciarsi con l’ego (“è il nemico degli attori”); ha corso a mille all’ora quando a soli quattordici anni ha deciso che il suo ’68 era composto da zaino in spalla, pollice in alto e un mondo da non temere (“mi sentivo un beat”); è entrato nella memoria collettiva come regista di alcuni spot televisivi, poi di film generazionali e ora come guru della serialità di Rai1: Un professore ha chiuso con quasi 5 milioni di spettatori. “Stare sul set è la vita che amo di più al mondo”.
Lei da attore bambino.
Giocavo solo all’attore.
E come ci è arrivato?
Casualmente; sono figlio di un operaio e di una contadina, persone totalmente digiune di spettacolo: siccome ero molto timido, mamma mi iscrisse alla recita della scuola, con la frase “magari ti sgrassi un po’”.
Si sgrassò?
Mi divertii molto e il pomeriggio della recita venne una signora impegnata con i casting; (sorride) il giorno dopo ero già sul palcoscenico del teatro Valle (di Roma) per un’audizione con Luchino Visconti: cercava un bambino per Il giardino dei ciliegi; allora non me ne rendevo conto, ma in quel momento ero circondato da un cast clamoroso, composto da personalità come Sergio Tofano o Paolo Stoppa.
Per lei chi erano?
Dei signori che stavano lì per giocare.
E lei?
Mamma per anni ha raccontato quel primo incontro come fossimo dentro a Bellissima.
Cioè?
Mentre ero sul palco sentì una risata fortissima. Lei preoccupata: “Mo che ha combinato questo?”. E invece ero stato bravo e grazie a una battuta conquistai la prova costume.
Si ricorda la battuta?
Visconti mi chiese: “Raccontami qualcosa”. “Cosa?”. “Quello che vuoi?”. Mi rifugiai in una barzelletta; (pausa) mia madre è stata una donna troppo intelligente; (altra pausa e risata roca) da lì sono arrivato a Strehler, membro di una compagnia straordinaria e con loro, ogni sera, arrivava l’applauso: quella roba neanche San Patrignano te la toglie. Dall’approvazione non si torna indietro.
Strehler le incuteva timore?
Direi rispetto; fino a qualche anno fa il regista veniva trattato come un papa: quando entrava sul set ognuno cambiava postura, atteggiamento e si silenziava ogni argomento; oggi, rispetto, a ieri, siamo dei morti di fame, dei disgraziati.
Quindi?
Avevo vinto la timidezza però restava la grande educazione e, in gran parte, mi portavano in compagnia perché ero un bambino che non rompeva le palle.
Chi l’affascinava?
Sergio Tofano: con lui ho condiviso il camerino e poi è l’autore del Signor Bonaventura, uno dei testi più belli di teatro: mi prendeva in braccio e mi leggeva le sue storie; ancora lo sento nel mio cervello (cambia voce). Ero la mascotte.
Scuola di vita.
Ricordo Lucilla Morlacchi, Ottavia Piccolo, Rina Morelli.
Di chi era innamorato?
La mia prima tensione è arrivata con la Morlacchi; (ride) che poi, tranquillamente, si cambiavano davanti a me e avevo appena otto anni: le vedevo seminude ed è stato devastante.
Ancora le ricorda.
Sì, e con grande piacere; era la scoperta del corpo femminile, non si vergognavano, i camerini erano aperti ed era un mondo libero; (abbassa il tono) prima dell’inizio della commedia Lina Morelli e Paolo Stoppa volevano che passassi da loro e mi regalavano un cioccolatino.
Cosa temeva?
Solo che finisse il gioco; eppure avevo una vita quasi schizofrenica: la mattina andavo a scuola ed ero un comune bambino; il pomeriggio entravo in teatro, la sera ero in scena e giocavo con gli adulti.
I soldi?
A otto anni ho iniziato a pagare le tasse e a casa portavo un reddito superiore a quello di mio padre, operaio alle officine centrali dell’Atac (i trasporti pubblici a Roma); grazie ai miei guadagni un giorno arrivò a casa un tecnico con un televisore, tempo dopo un frigorifero, e via così.
Una svolta…
Prima, per noi, era normale tenere il latte sul davanzale o andare dalla vicina per vedere la tv; ah, aggiungo l’automobile e le prime vacanze al mare.
E suo padre?
Anni dopo ho capito che forse, per lui, questa situazione è stata un po’ frustrante; (pausa) quando lavoravo mamma era obbligata ad accompagnarmi perché minorenne: giravamo l’Italia e il mondo e nel frattempo dovevo studiare, così viaggiavo con una specie di piccolo registro portabile che consegnavo in ogni scuola dove mi fermavo.
I professori come reagivano?
Un sabotaggio continuo, anche perché il mondo dello spettacolo era visto malissimo, come una realtà impregnata di perversione, mentre in realtà ero circondato da persone con una cultura unica: a otto anni conoscevo alla perfezione I fratelli Karamazov.
Questo gioco come si è interrotto?
Con il ’68: a 13-14 anni ho iniziato ha sentire quell’eco, poi la musica rock, la beat generation e allora sono arrivati i viaggi da vagabondo del karma.
A quell’età?
Seguivo le indicazioni di Kerouac e partivo pure da solo, oppure mi aggregavo alle prime comuni agricole.
E i suoi?
Non potevano dire nulla, ero ingestibile: se ci penso credo di avergli creato non pochi problemi; (pausa) tornavo sempre con i libri sotto il braccio e a scuola andavo bene. Però mettevo in discussione tutto.
E la scoperta del sesso?
La rivoluzione sessuale scritta da Wilhelm Reich era parte di noi; (sorride) dopo il battesimo del corpo femminile dietro le quinte teatrali, il passo successivo è arrivato sul set: in Come, quando e perché, a 13 anni, ho vissuto il primo contatto con il nudo di una ragazza (pausa). L’espressione di quella scoperta è fissata in un film.
E lì cos’ha capito?
Che era una tragedia, perché da quella sensazione erotica non ne sarei più uscito.
Perché ha smesso la carriera d’attore?
Era un periodo di passaggio, i grandi registi stavano morendo, iniziavano i poliziotteschi e le pellicole porno-soft; non mi interessavano, non corrispondevano alla mia visione della vita: accettavo solo le pubblicità, dove mi divertivo e guadagnavo i soldi per viaggiare.
Però ha girato con De Sica…
Con lui sul set si aveva quella sensazione da papa; davanti poteva avere pure il più grande attore del mondo, ma si metteva in scena e gli mostrava come desiderava la parte: ogni volta, diventava un personaggio diverso, cambiava e con dei tempi incredibili.
La regia come è arrivata?
Mentre stavo sul set o in camerino vedevo un vortice di persone muoversi, magari per sistemare le luci o un microfono, non solo la telecamera; un giorno mi sono posto la domanda cruciale: non è che sono loro a divertirsi mentre io perdo tempo?
E allora?
Quel giorno c’era accanto a me una costumista-scenografa in difficoltà. “Posso darti una mano?”. “Ecco, sì, bravo”. Alla fine della giornata è tornata a ringraziarmi: “Hai la patente?” “Sì”. “Da domani sarai il mio assistente”.
E la droga dell’applauso?
La prendevo di riflesso attraverso i successi degli altri; (ride all’improvviso) la mia macchina era diventata un catalogo ambulante di tessuti, colori, vernici, chiusure lampo; la mia Bibbia era un contenitore pieno di biglietti da visita e sotto il sedile dell’auto avevo piazzato le Pagine Gialle; (ora ride proprio) aggiungo cinquantamila lire al giorno di gettoni e le tasche delle giacche sformate per contenerli.
La carriera d’attore completamente abbandonata?
Qualcosina capitava; poi un giorno un regista decise di cambiarmi un’altra volta la vita: “Basta con ’sti bottoni, damme ’na mano”. Io dispiaciuto, ma non potevo rifiutare.
E…?
Dopo due ore dietro la macchina da presa ho capito quale era la giusta via alla felicità; da quel momento ho seguito i più grandi registi della pubblicità, tutti professionisti con i quali avevo recitato al tempo dei Caroselli; non solo, siccome ero uno dei pochi “aiuti” a conoscere l’inglese venivo coinvolto dagli stranieri, gente che ogni anno vinceva cariolate di premi a Cannes.
Inevitabile diventare regista.
Sono miei quelli di “Una telefonata allunga la vita”, “Ciribiribì Kodak”, “Turista fai da te ahi ahi ahi” o “Anto’ fa caldo” con una Luisa Ranieri all’esordio. Lei bellissima, perfetta.
Il suo primo set da regista cinematografico.
Il primo ciak è stato per Americano rosso con davanti a me Fabrizio Bentivoglio ed Eros Pagni, due professionisti rari; poi in quei giorni accadde qualcosa di pazzesco: giravamo vicino a Venezia e quell’anno assegnavano il Leone alla carriera a Marcello Mastroianni. Proprio Mastroianni venne a sapere che un regista esordiente stava lì e si presentò per farmi l’in bocca al lupo.
Vi conoscevate?
No. E davanti a lui all’inizio ho tartagliato.
Come la trattano gli attori?
Intanto io tratto benissimo loro, perché provo affetto e stima; so cos’è l’ansia prima del ciak, o quella di quando sei in quinta e devi entrare in scena con il passo giusto; conosco le debolezze e le paure; conosco il prezzo alto che pagano per mantenere la popolarità e l’immagine.
Qual è il prezzo?
Intanto sono drogati dal successo, ed è pesante, gonfia l’ego in maniera smisurata. E l’ego rappresenta il primo nemico; (ride) a loro dico sempre: “Voi siete ‘ciao, come sto?’”.
Però…
È anche la loro forza, per questo comprendo le contraddizioni e aggiungo: gli attori hanno una forte difficoltà nelle relazioni, è tutto alterato, sono costantemente fuori di casa, con una vita personale devastata.
Molti suoi colleghi registi si sentono psicologi degli attori.
Io sono più un allenatore.
Tra i suoi “giocatori” c’è Fabio Volo…
Per Casomai l’ho dovuto convincere, non ci credeva.
Come?
Gli ho detto: “Ti organizzo un provino, se alla fine non ti piaci, arrivederci”. Così ci vediamo a Milano, una chiacchierata di un’ora tra me e lui nei panni del personaggio protagonista; alla fine la ragazza che stava dietro la macchina da presa va da Fabio e tutta partecipe gli domanda: “Davvero ti sono successe tutte queste cose?” Lui incredulo: “In che senso”. “Beh, ti sei separato, hai avuto un figlio…”. Ha capito che poteva recitare.
Da regista che aveva visto in Fabio Volo?
A differenza di molti attori era uno senza difese, in grado di mettere in scena le sue fragilità; non si presentava con l’atteggiamento “io so’ figo”, anzi era uno che si spogliava davanti ad Alessia Marcuzzi con lei che lo prendeva per il culo: “Hai il pisello piccolo!”; (cambia tono, riflette) lo sa che scandisco la mia vita a seconda dei set?
Sono le sue stagioni…
Se qualcuno mi chiede dove stavo in un certo anno, l’unico modo per ricostruirlo è pensare al set del periodo; ho due figlie cresciute accanto a me mentre stavo dietro la macchina da presa. Per me vita e lavoro sono la stessa realtà.
L’hanno mai rimproverata per questo?
Sempre, e tutti gli affetti, compresi gli amici.
Torniamo agli attori: Lino Guanciale.
Straordinario, preparato, con una proprietà dialettica rara e il piacere di stare insieme va oltre il set; stessa certezza con Alessandro Gassmann: con lui ho girato due serie; (cambia tono) entrambi sono persone curiose, disciplinate, uomini del loro tempo, dove la popolarità non ha influito sull’ego. Restano attori e persone.
Lei chi è?
Uno che ha avuto la fortuna di nascere e vedere l’ultima civiltà contadina, ed è il patrimonio più grande. Poi sono figlio dell’amore, perché i miei mi hanno amato e si sono amati tantissimo.