il Fatto Quotidiano, 19 dicembre 2021
Il boom dei licenziamenti per giusta causa
Un’esplosione di licenziamenti dopo luglio in effetti c’è stata. La sorpresa, però, è che non ha riguardato tanto quelli economici (sbloccati dopo il 30 giugno per industria ed edilizia), che sono aumentati ma non quanto si temeva, bensì quelli disciplinari, quasi raddoppiati rispetto al pre-Covid. Per capirci, nei primi nove mesi del 2021 gli allontanamenti per “giusta causa” hanno già superato il totale annuale degli anni precedenti. Un record reso possibile da una netta accelerata – come emerge dai dati Inps – avvenuta durante il trimestre estivo, quando i dipendenti licenziati “per punizione” dai datori di lavoro sono stati 54.764, mentre nello stesso periodo del 2020 erano stati 39.621 e nel 2019 – in tempi “normali” – solo 32.344. Nel frattempo, prosegue anche la crescita delle dimissioni, arrivate a oltre mezzo milione a fine terzo trimestre 2021.
Breve riassunto. Il 17 marzo 2020, appena scoppiata la pandemia, il governo Conte aveva vietato quasi del tutto i licenziamenti economici, concedendo però la cassa integrazione gratuita a tutte le imprese. I licenziamenti disciplinari, naturalmente, non sono mai stati vietati: il loro aumento nei mesi del blocco fa pensare che siano stati utilizzati per mascherare tagli di organico dovuti a ragioni economiche. La moratoria, come detto, è durata fino al 30 giugno 2021, quando il governo Draghi ha dato il via libera ai licenziamenti nelle imprese dell’industria – moda esclusa – e delle costruzioni (per tutti gli altri settori sono invece stati sbloccati il 1 novembre, periodo per cui non ci sono ancora dati).
Restiamo dunque ai numeri Istat. Tra il 1 luglio e il 30 settembre 2021, primi tre mesi di licenziamenti liberi, quelli per motivi economici sono stati 107.561, aumentati di parecchio sia rispetto ai 77.406 del trimestre precedente sia rispetto agli 80.802 del terzo trimestre 2020: un dato che però è ancora inferiore ai 175.652 licenziati economici del terzo trimestre 2019, riferimento per il periodo pre-pandemia. Ha un certo peso il fatto che nel 2019 si poteva licenziare in tutti i settori, mentre tra luglio e settembre 2021 è stato possibile farlo solo nelle fabbriche e nei cantieri, ma anche isolando il dato dell’industria, i licenziamenti sono comunque stati inferiori rispetto al 2019.
Nel frattempo, però, abbiamo avuto una parallela galoppata dei licenziamenti disciplinari. Questa tipologia, in tempi normali, ne contava circa 30mila per trimestre. Da giugno 2020 in poi – cioè subito dopo i lockdown e in costanza di blocco dei licenziamenti economici – sono costantemente cresciuti, attestandosi mediamente tra i 36 e i 39 mila per trimestre. Tra luglio e settembre di quest’anno poi – col blocco rimasto in vigore per settori particolarmente in crisi come industria tessile, servizi, commercio e turismo – il dato è schizzato a quasi 55 mila. Un boom che risulta ancora più strano alla luce del fatto che nel terzo trimestre 2021 le ore lavorate sono risultate ancora mezzo miliardo in meno rispetto al pre-Covid: con meno attività, infatti, avrebbero dovuto esserci anche meno occasioni per contestare inadempienze ai lavoratori. Eppure le contestazioni sono cresciute del 70% in confronto a quando si lavorava a pieno regime. È legittimo, dunque, il sospetto che dietro questo boom dei disciplinari ci siano licenziamenti economici.
C’è infine il fenomeno delle dimissioni di massa: il terzo trimestre ha confermato il netto aumento visto già nel secondo. Va detto che erano crollate in tutti i trimestri precedenti, con il mercato del lavoro quasi completamente fermo. Ora, però, le dimissioni vanno a mille all’ora: in parte questo si spiega col fatto che è ripartito un po’ di turn over (per quanto le assunzioni siano in maggioranza precarie e/o part time), ma c’è anche la possibilità che il Covid abbia portato le persone a riconsiderare le proprie priorità e a spingerle a lasciare quei lavori che li rendono scontenti. È un aspetto che andrà indagato nei prossimi mesi.