Specchio, 19 dicembre 2021
Che fine ha fatto Antonio Lubrano
Lucido, puntuale, acuto come sempre. «Ho avuto qualche acciacco, cose dell’età, d’altronde sono quasi novanta», ci scherza su Antonio Lubrano. Problemi superati, giura lui, maestro e protagonista del giornalismo «al servizio della gente» (ci tiene e continua a ribadire il concetto) che ha segnato un’epoca e ancora non smette di scrivere, di polemizzare contro i mali della società, di raccogliere soddisfazioni.
Nato a Procida («ne sono orgoglioso») non si sottrae a una chiacchierata a tutto tondo, raccontando una carriera lunghissima ma soprattutto la spinta che lo ha sempre mosso.
La storia inizia, appunto, a Procida. Terra di naviganti così come lo era la sua famiglia. «Ma mio padre – racconta – fece di tutto per dissuadermi dal seguire quelle orme, mi disse: non farlo, perché non potrai mai goderti veramente una famiglia». Lui, quasi per puntiglio, rispose con una battuta che suonava quasi come una provocazione: «D’accordo, papà. Farò il giornalista».
Così a 18 anni appena si presenta alla redazione del Giornale (quotidiano di Napoli, che non ha a che fare con quello fondato poi da Indro Montanelli) e sfodera tutta la faccia tosta parlando con il caporedattore: «Io voglio fare il suo lavoro». La risposta: «Vieni ogni sera due ore in tipografia, inizierai a imparare». Va avanti così due anni. Intanto va sui campetti a far le consuete dieci righe sulle partite del calcio dilettantistico e anche la pallanuoto, «perché a Procida c’erano grandi campioni».
Negli agli anni Settanta viene assunto in Rai, al Tg2 del direttore Andrea Barbato, proveniente dal Radiocorriere tv. «Il capo della redazione politica – è il suo racconto - cercava un giornalista che... non capisse niente di politica. Fui scelto io e iniziai a intervistare i grandi politici della prima Repubblica, da Andreotti a Craxi, da Fanfani a Spadolini. Con le mie domande da uomo della strada iniziai a scardinare le trappole e le insidie del politichese. Il pubblico apprezzò moltissimo».
Poi verrà Diogene. Ma la vera svolta arriva quando lo nota Angelo Guglielmi e gli propone di condurre un nuovo programma. Il titolo è sul calco di «mi manda Picone», il film di Nanni Loy del 1983 con Giancarlo Giannini. «Gugliemi mi propose: Mi manda Lubrano. Io rimasi interdetto. Gli chiesi: sei sicuro? Perché mi sembrava presunzione, un titolo con il mio cognome».
Guglielmi era proprio sicuro, tanto che il titolo fu quello. Era nato un caposaldo della tv di servizio. «Il primo anno – racconta ancora il conduttore – il riscontro fu tiepido. Dal secondo in poi il programma decollò. E arrivò un periodo in cui mi era impossibile girare per la strada, andare in qualunque luogo senza che qualcuno mi fermasse dicendomi: mi perdoni, dottor Lubrano, come posso risolvere questo problema?».
La chiave dell’affermazione? «Io credo sia stato il mio linguaggio. Chi mi ha insegnato il giornalismo mi ha sempre ripetuto: siamo il tramite tra gli avvenimenti e il pubblico. Tu devi parlare in modo che chiunque ti ascolta capisca perfettamente quel che stai dicendo». Il marchio del successo? Ride, Lubrano: «Credo proprio di sì. Forse insieme al mio accento e alla mia napoletanità credo rassicurante». Un marchio che si è perpetuato con Mi manda Raitre.
Rimpianti? «Nessuno. Ho fatto l’inviato speciale, sono stato anche direttore di Sorrisi e Canzoni, ho condotto trasmissioni di successo, sempre con lo stesso intendimento che mi muoveva da ragazzo: intercettare i bisogni della gente comune e cercare di dare delle risposte a chi ne ha bisogno».
L’ultimo libro, per Castelvecchi editore, è L’Italia truccata. La storia di «una terra di assurdi e paradossi». L’ultima sparata? Contro i monopattini elettrici che invadono tutto: «Le pare possibile che oggi chi percorre un marciapiede debba sentirsi quasi un estraneo? Tanti, tantissimi sono d’accordo con me».