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 2021  dicembre 19 Domenica calendario

Intervista a Massimo Popolizio

Un romanzo storico gigantesco, con dettagli infiniti, accadimenti, personaggi, dialoghi, che raccoglie la cronaca dell’ascesa del fascismo, il dilagare dello squadrismo e la scalata al potere di Mussolini in soli sei anni: M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, 848 pagine, edizioni Bompiani, il maggior successo letterario nel 2018 (come il seguito M. L’uomo della provvidenza del 2020), premio Strega 2019, è ora lo spettacolo più atteso dell’anno.
Nuovo, imponente, come da tempo non se ne vedevano, movimentato, epico e anche di grande attualità e peso morale.
Un lavoro che ha richiesto sei mesi per montare il progetto, con 120 cambi di costume, centinaia di ambientazioni, 18 attori, quasi quattro ore di durata, divise in due parti autonome, “1919” e “1924”, che possono essere viste singolarmente o integralmente (una volta la settimana) dal 20 gennaio al 26 febbraio al Piccolo Strehler di Milano e dal 3 marzo al Teatro di Roma, che sono i coraggiosi produttori. Uno spettacolo che, come il romanzo, sfida l’eccesso, «ma un po’ di incoscienza fa solo bene al teatro», scherza Massimo Popolizio, per i critici il più bravo attore teatrale italiano, 90 spettacoli da protagonista e quasi la metà con Luca Ronconi, e abilissimo regista come già aveva mostrato fin da Ragazzi di vita di Pasolini nel 2017.
Qui, nella doppia veste, in scena è interprete con Tommaso Ragno che farà Mussolini e poi Riccardo Bocci, Gabriele Brunelli, Tommaso Cardarelli, Michele Dell’Utri, Giulia Di Renzi, Raffaele Esposito, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Diana Manea, Paolo Musio, Michele Nani, Alberto Onofrietti, Francesca Osso, Antonio Perretta, Sandra Toffolatti, Beatrice Verzotti; da regista, ha destrutturato l’intero romanzo e con la collaborazione di Lorenzo Pavolini lo ha mirabilmente rimontato in 31 quadri che mettono insieme «la Storia con la fantasia del teatro, muscoli tesi e canzoni, documentazioni politiche e immaginazione, tragedia e grottesco — spiega Popolizio — per un grande affresco che ci fa riflettere sul contemporaneo», su temi come il populismo, il fanatismo delle masse e l’etica del comportamento collettivo.
Popolizio, da dove è partito?
«Da quello che non volevo fare.
Non volevo che fosse una puntata di Rai Storia, che è fantastica, ma è un’altra cosa. Né una sceneggiatura stile film storico di denuncia alla Florestano Mancini o alla Bellocchio. In scena non c’è un fez, né una immagine del Duce. Le pagine del libro, che vanno dal 23 marzo del 1919 al 3 gennaio del 1925, ci sono al 98 per cento ma tradotte in un linguaggio teatrale, non un affresco palloso, ma dinamico. Ogni quadro non dura più di sei, sette minuti, quindi tutto è molto scandito, ritmato.
Sarà quasi un varietà, anche se nero».
Un po’ alla Brecht?
«Sì, anche o felliniano, dove aleggia un clima da circo. C’è molta musica, dai canti popolari alla techno. Balli, dal fox trot al tip tap, che sto imparando anche io.
La scena di Mario Rossi è semplicissima, solo due grandi scaloni semoventi, e in mezzo botole, oggetti, immagini dell’Istituto Luce proiettate sullo sfondo. Per la marcia su Roma ci sarà la pioggia vera. Ma tutto molto semplice. Mussolini, la Sarfatti, Matteotti recitati ognuno da un attore, e le altre centinaia di personaggi, dagli arditi a D’Annunzio, Italo Balbo, Marinetti... interpretati a rotazione dagli attori, hanno spesso toni grotteschi, derisori, proprio come nel varietà».
Perché questa scelta?
«Perché non volevo fare uno spettacolo ideologico, didattico, né con lo stereotipo di Mussolini.
Andava rappresentata la violenza che il libro racconta e il grottesco sottolinea quella cattiveria. Italo Balbo che si fregia di una efferata uccisione presentandola come una canzoncina di varietà provoca paura e orrore. Non sarà uno spettacolo che asserisce, che mette l’evidenziatore, ma che vuole capire, magari per aiutarci a leggere ciò che accade oggi».
Dove vede più un riflesso nel presente?
«Frasi come “noi siamo un antipartito, noi odiamo i partiti”, o la capacità mercuriale di Mussolini di cambiare continuamente rotta, un po’ comunista, un po’ fascista, o ancora l’inerzia colpevole delle forze di opposizione e lo smarrimento dell’opinione pubblica, l’alimentare l’odio di classe… Mi pare proprio che tutto questo ci riguardi, no?».
Negli anni Venti furono i prodromi di un regime liberticida.
«E non sono mai morte quelle tentazioni. Quando interpretavo Mussolini nel 2017, nel film Sono tornato (remake di Luca Miniero del film tedesco Lui è tornato sull’ipotetico ritorno di Adolf Hitler nella Germania di oggi,
ndr ), giravamo una scena in strada a Roma e la gente mi salutava col saluto fascista. C’è una frase del libro che mi ha colpito. Alla Sarfatti che esulta per il fascismo che dilaga come un virus per la via Emilia, Mussolini replica: “Il fascismo non è il virus che dilaga, ma il corpo che lo accoglie”. Il nostro Paese questa cosa deve capirla».