la Repubblica, 19 dicembre 2021
Le novanta bande che si spartiscono Roma
Sparano quando è necessario, uccidono quando è inevitabile. Per soldi picchiano duro ma raramente danno la morte. Eppure, accade. Non è la spia di guerre che gli affari non possono consentire, ma un riassetto che di tanto in tanto prevede il piombo. L’indagine che ha chiuso un primo capitolo del libro aperto con la morte di Piscitelli, il Diabolik della curva laziale, freddato come un boss nell’agosto di tre anni fa, racconta molto di come vanno le cose del crimine all’ombra del Cupolone.
Le ragioni economiche non giustificano il sangue. L’onore sì. La sintetizzava così un vecchio boss siciliano chiamato a dirimere una controversia d’affari sul litorale laziale. Ed è per l’onore, declinato a queste latitudini in un’accezione ancora più ampia che in Cosa nostra, che Fabrizio Piscitelli si è giocato la vita. Un omicidio chirurgico quanto eclatante che ne ha imposto almeno altri due. L’anno dopo a Torvaianica era toccato a Shehaj Selavdi. Agguati in fotocopia con il sicario travestito da runner in un caldo pomeriggio di agosto al Parco degli Acquedotti per Diabolik e in spiaggia, per l’albanese, in una domenica di settembre. Agli inizi di questo dicembre, a Primavalle, l’omicidio di un trentenne romeno, Adrian Pascu, dal passato burrascoso e dal presente di un millantato riscattato da pizzaiolo a Ponte Milvio, epicentro della movida di Roma Nord. Pascu, così come Shehaj riconduce a Piscitelli. Tre delitti, un’unica matrice e molte concause. Per Selavdi il sospetto che avesse a che fare con il ferimento di Leandro Bennato, il cui fratello Enrico è ora accusato della probabile vendetta. Messa a segno insieme con Raoul Esteban Calderon, l’argentino indicato dalla squadra mobile di Roma come il sicario del delitto Piscitelli e come complice di Bennato nell’assassinio di Shehaj, su cui indagano i carabinieri.
Un provvidenziale fotogramma dell’omicidio al Parco, le comparazioni con la figura di Calderon, il lavoro balistico, le intercettazioni e le ammissioni di alcuni comprimari, hanno consentito alla Dda guidata da Michele Prestipino, capo in uscita dopo la retromarcia del Csm sulla sua nomina, di chiudere sugli esecutori. Un modello che ripropone il menu delle indagini di mafia. Lavoro tecnico e cosiddetti pentiti. E ora si punta ai mandanti.
I presunti assassini: Calderon e Bennato hanno profili lievemente diversi. Il primo nasce rapinatore ed evolve al rango di sicario. Bennato sguazza comodo nel sottobosco dello spaccio di medio calibro e ha protezioni tra i camorristi. Più di un indizio mette in connessione i delitti con la necessità di stroncare sul nascere le ambizioni di Piscitelli. Le carte giudiziarie di un’indagine conclusasi dopo la sua morte e che lo avrebbe condotto nuovamente in carcere, raccontano la sua voglia di emergere, di bruciare le tappe, di conquistarsi un posto al sole che nessuno era disposto a concedergli. Non certo i maggiorenti del clan Senese, a cominciare da Michele ’o ‘pazzo, instabile di mente quando la prospettiva è la galera, lucido, lucidissimo se di mezzo ci sono da gestire al meglio gli affari della camorra a Roma. Delfino di Senese, Diabolik era cresciuto nell’ombra, ritagliandosi però un ruolo proprio spingendolo probabilmente fino all’azzardo di accarezzare l’idea di rimpiazzare il proprio mentore, costretto a un’uscita di scena imposta dalla legge. I colpi di pistola hanno sepolto le intenzioni di Piscitelli, consegnato il suo gruppo alla galera e alimentato quella scia di sangue mafioso che ora potrebbe essersi fermata.
Roma, con i suoi 90 gruppi che lavorano senza soste, 24 ore su 24, festivi e notturni compresi, nelle trenta piazze di spaccio che fanno della città uno dei mercati della droga più importanti a livello europeo, del resto, funziona come un arcipelago criminale. Che non tollera capi supremi ma assegna per censo, tradizione e, soprattutto, per collegamenti e padrinaggi, leadership riconosciute su porzioni di territorio. I confini sono labili e le frizioni costanti ma a mettere d’accordo tutti è il fiume di soldi che muove il traffico. In uscita per il Nord Europa e in entrata, per il fabbisogno di una città che consuma avidamente a più livelli, dalla marijuana alla coca, fino alle sintetiche. Trasversale e interclassista nell’acquisto e nelle consuetudini. Disinvolta nelle amicizie pericolose. Che sa adeguare i canali di distribuzione anche durante il lockdown. I rider, le consegne a domicilio, le spedizioni, pur di non fermare un’industria che sfida per fatturato le dimensioni delle manovre finanziarie e spinge un welfare parallelo fatto di paghe a giornata per i galoppini dello spaccio, 60 euro per chi lavora con la luce, il doppio per chi spinge la roba con il buio. E si è quasi sempre in coppia: chi contratta e incassa e chi consegna. Si divide il rischio e ci si guarda le spalle. Il resto lo fanno le vedette e i presìdi.
Ma questo è il terreno. Sopra c’è il livello in cui si muoveva con mire crescenti Piscitelli. È il rango dei grossisti, quelli che hanno i contatti diretti con gli importatori. I garanti della fase intermedia tra i carichi in arrivo e la distribuzione. Partite a chili contrattate con i signori del brokeraggio, appannaggio ormai delle ‘ndrine calabresi. A loro le relazioni internazionali, costruite in anni in cui l’affidabilità è stata testata e la capacità di tenuta sperimentata. Con i calabresi, forti di un radicamento territoriale anche nelle periferie e massicci investimenti, soprattutto nella ristorazione, bisogna fare i conti nella fase dell’acquisto delle partite. Sotto di loro, la brulicante attività di chi acquisisce, suddivide, redistribuisce e infine affida per la consegna. Un’industria in cui c’è un posto per tutti. Una piramide che non tutti possono scalare. Questione di affari e di onore.