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 2021  dicembre 19 Domenica calendario

Biografia di Luciano Ligabue raccontata da lui stesso

E un altro mito è sfatato. Perché, diciamo la verità, la proverbiale riservatezza di Luciano Ligabue è poco più di una leggenda che si è alimentata negli anni. All’inizio della carriera probabilmente gli veniva più facile nascondersi per via di quella timidezza congenita che ha faticato a scrollarsi di dosso. Ma adesso di quel ragazzo che malvolentieri si lasciava andare a confessioni private è rimasto ben poco. «Anzi, a volte racconto pure troppo», suggerisce il Liga, che proprio di recente ha messo in piazza i fatti suoi nella docu-serie È andata così disponibile su RaiPlay. Un biopic in cui il rocker di Correggio, dialogando con Stefano Accorsi, ricorda piccoli e grandi aneddoti che lo hanno visto protagonista in oltre 30 anni di carriera consumati su e giù da un palco. A conti fatti, in quelle puntate Ligabue mette in fila le tappe fondamentali della sua vita: la pubblicazione del primo disco, il dialogo con il pubblico, la consacrazione, i film da regista, i successi. Ma con onestà parla anche di cadute e di crisi, personali e artistiche. 
Ma allora, dov’è tutta questa riservatezza? 
«Proprio non lo so. Mi fa perfino sorridere che la gente mi veda così, forse c’è qualcosa in me che porta le persone a percepirmi in questo modo. Sicuramente sono cambiato nel tempo, soprattutto perché si è instaurato un rapporto di fiducia tra me e i fan: loro hanno incominciato a credere in me ed io in loro. Probabilmente l’equivoco sorge perché tutto sommato, ne sono convinto, bastano quattro o cinque aggettivi per essere definiti dagli altri». 
A proposito di definizioni, nella serie ce n’è una che la riguarda riferita da Pierfrancesco Favino, tra i protagonisti di Da zero a dieci, il suo secondo film da regista. Ricordando l’atmosfera di quel set del 2002, l’attore ad un certo punto esclama: «Luciano è un grandissimo cazzaro». 
«Mi sono sempre reso conto che stare dietro una macchina da presa non è esattamente il mio posto “naturale”, di mestiere faccio il cantante. E allora quando tra un ciak e un altro mi accorgevo che si stava scherzando un po’ troppo, per dimostrare di essere un regista autorevole, facevo scendere davanti a me una tenda di serietà per apparire più credibile. Detto questo, io sono un cazzaro, solo che questo lato del mio carattere non arriva così bene all’esterno».
In È andata così c’è un’altra confessione a sorpresa, questa volta di Francesco De Gregori. Che spiazzando un po’ la platea tira fuori una lista di sensazioni provate nei suoi confronti: «All’inizio mi stava antipatico, per invidia e per gelosia. Aveva molto successo, era giovanissimo, un bellissimo ragazzo, cantava bene ed era pieno di capelli».
«Affermazioni così non me le aspettavo, diciamo che ha un po’ esagerato. Francesco ed io siamo diventati amici e mi ha fatto piacere che abbia accettato di partecipare al biopic». 
Riprendiamo la questione capelli: nella serie ci sono continui salti temporali, dai tempi della gavetta di un esordiente dalla folta chioma castana, ai concerti più recenti di una star dalla capigliatura sale e pepe. Nel riguardare quelle sequenze, il suo sguardo si riempie di tenera nostalgia per quel giovane musicista o di angoscia per il tempo che passa? 
«Più che angosciato, direi che sono turbato per lo scorrere degli anni. Fortunatamente non mi guardo quasi mai allo specchio, e comunque sono contento che la mia faccia sia la mia faccia. Certo, nonostante possa contare su una buona forma fisica, ho la consapevolezza che ormai la “direzione” è unica. E quello che posso fare è mettere a frutto quella saggezza che spero di aver acquisito nel tempo». 
Facciamo un salto indietro e andiamo al 1993, l’anno di pubblicazione di Sopravvissuti e sopravviventi che stava per far vacillare la sua carriera. Un album cupo e infarcito di dubbi che poco o nulla aveva a che vedere con l’euforia assaporata per il successo dei due dischi precedenti. Una svolta che non fu accolta bene e che si stava per trasformare in un «suicidio» artistico: si è mai chiesto perché fece quella scelta? 
«Da cosa sia dipeso non lo so, dovrei farmi vedere da uno bravo che me lo sappia spiegare… Tuttavia, ho fatto delle ipotesi. La prima: tendo a voler accogliere tutte le parti di me e quindi a volte capita che ho delle urgenze espressive che finiscono per andare contro il mio stesso interesse. La seconda: siccome questa faccenda si verifica sempre dopo momenti di grandissima felicità personale, o è una forma di espiazione o è il classico senso di colpa cattocomunista accumulato in abbondanza da ragazzo». 
Un sentimento che non sembra incontrare troppo le sue simpatie… 
«Quando ti viene “instillato” nella fase di formazione, e che poi va avanti fino all’adolescenza, è impossibile liberarsene. So di averlo e me lo tengo. Anche se mi sarei volentieri portato dietro cose migliori». 
È ancora cattolico? 
«Ero un praticante convinto, non lo sono più da tempo. Però ho bisogno di credere, anche se non sento il bisogno di avere una figura a cui rivolgermi. Ma continuo a pensare che non sia tutto qui». 
Della sua fede comunista cosa è rimasto? 
«Innanzitutto va ricordata una cosa importante: essere comunista negli anni 60-70 a Reggio Emilia voleva dire credere nella possibilità che ci fosse una chance per chiunque; e inoltre significava avere un’attenzione speciale per gli ultimi. Ma se i miei genitori avessero mai pensato che quella condizione corrispondesse al vivere un tipo di esistenza come in Unione Sovietica, non avrebbero mai votato per quel partito. Ecco, di tutto questo mi sono rimasti i valori di base, perché ancora adesso continuo a idealizzare una possibilità di mondo in cui condividere le esistenze ad un livello che non sia solo quello dettato dall’ipercapitalismo». 
Ha fatto un accenno ai suoi genitori e allora viene da chiederle: suo padre era un tipo estroverso, innamorato della vita, lei invece un ragazzo introverso, poco chiacchierone. Com’è andato il viaggio insieme? 
«Lui faticava a capire che esistessero persone timide e il dialogo tra noi era difficile. Però mi spiazzò quando mi regalò la mia prima chitarra, nonostante dicesse che i musicisti erano tutti morti di fame». 
E lei gli ha reso omaggio quando ha inciso Bambolina e barracuda perché in qualche modo lo ha citato. 
«Ma l’ho scoperto solo dopo aver pubblicato quel brano che, se paragonato a tutti gli altri del mio repertorio, risulta abbastanza anomalo con quel refrain che fa: “Ba-ba-ba, bambolina / Ba-ba, fammi giocare”. Praticamente è identico al ritornello di un pezzo che canticchiava spesso mio padre: “Ba, ba, baciami piccina / Con la bo, bo, bocca piccolina”. Eh sì, il mio babbo e la mia mamma insieme rappresentavano la gioia di vivere. E quando il papà tornava a casa lo si sentiva arrivare perché quasi sempre fischiettava lungo le scale». 
Lei ha due figli, Linda (avuta dalla sua attuale moglie Barbara), e Lenny (nato quando era sposato con Donatella): le è mai capitato di pensare «mannaggia, questa volta non mi sono piaciuto tanto come padre»? 
«Beh, Lenny ha dovuto assistere alla separazione dei suoi genitori ed è quindi figlio di una coppia divorziata. Perciò è fuori di dubbio che rispetto a lui ho avuto un senso di colpa enorme che per diversi aspetti rimane ancora piantato dentro di me. Ed essendo io cresciuto in una famiglia in cui la gente stava bene insieme fin che morte non li separava, mio figlio è anche la testimonianza di un fallimento personale. Da lì in poi quello che faccio, anche con lui, è frutto alle volte di un recupero che tento di fare. E non so mai quando ci prendo e quando sbaglio. Recentemente però parliamo molto di più perché abbiamo diverse cose in comune: anche lui lavora nel campo della musica e di recente ha prodotto un album dei ClanDestino, la mia band degli esordi». 
Un suo rimpianto. 
«Non aver stretto la mano allo scrittore Pier Vittorio Tondelli, morto 30 anni fa». 
Le va di riavvolgere il nastro? 
«Lui era di Correggio e quando andai sotto le armi, a salvarmi da una sorta di depressione che mi aveva assalito fu il suo Altri libertini. A parte il racconto iniziale, gli altri episodi del romanzo parlavano di qualcosa che io riconoscevo, che avevo sotto gli occhi tutti i giorni. Essendo entrambi del borgo, vedevo gli angoli che raccontava, le persone che descriveva, che per me non erano per nulla interessanti, mentre nel suo libro assumevano un aspetto intrigante. Quindi la lezione enorme che mi veniva recapitata era: anch’io posso posare lo sguardo su ciò che mi sta attorno senza il bisogno di andare a vivere in una grande metropoli per cercare storie particolari. Tutto questo avrei dovuto raccontarglielo, avrei dovuto fermarlo e dirgli: “Poterti leggere per me è stato molto importante”. E invece non l’ho mai fatto, malgrado abitassi nello stesso palazzo in cui vivevano i suoi genitori e dove lui tornava quando rientrava a Correggio. Non so quante volte l’ho incrociato per le scale, ma tra noi c’è sempre stato solo un “ciao-ciao” di due timidi. Il mio rammarico più grande resta quello di non averlo ringraziato come meritava». 
San Siro, che rappresenta il suo esordio negli stadi, rischia di essere abbattuto: lei che dice? 
«Non tiratelo giù, permetteteci di usarlo ancora. Anche se non verrà più sfruttato per il calcio, che venga destinato ai concerti: sarebbe un modo per iniziare a risolvere la questione degli spazi dedicati alla musica».