La Stampa, 19 dicembre 2021
Panzerbär, il quotidiano più bugiardo della storia
Adolf Hitler ha già deciso di uccidersi e si è appena sfogato nella memorabile sceneggiata nel bunker, ammettendo la sconfitta davanti ai suoi generali. I sovietici hanno accerchiato Berlino e si stanno preparando a sferrare l’attacco finale. Il Terzo Reich ha i giorni contati, senza munizioni, senza viveri e senza speranze, ridotto a un nodo di strade, difeso da divisioni in rotta, anziani armati di lanciagranate e ragazzini in bicicletta. Ma Joseph Goebbels non rinuncia alla sua propaganda eterna fatta di veleno e menzogne: così inventa e gestisce la sua ultima creatura. I giornali non arrivano più nella capitale e lui ne fonda un ultimo disperato, estremista e sfacciato esemplare: il Panzerbär.
Il quotidiano, gratuito, quattro pagine per otto uscite, viene stampato dal 22 al 29 aprile del 1945 e distribuito da bande di adolescenti – tra le macerie e i crateri di Berlino – ai rifugiati e alle ultime migliaia di soldati chiamati a difendere la città. Il Panzerbär, l’orso corazzato, prende in prestito il simbolo di Berlino e lo attrezza con una vanga per scavare le trincee e un panzerfaust per andare a caccia di carri armati russi. Sulla testata del foglio, una piccola scritta: «Leggete e passate», come dicevano le maestre a scuola.
Goebbels affida a questo giornale i suoi ultimi proclami, le sue deliranti teorie. E le sue minacce: «Chi non combatte deve essere fucilato», «i disfattisti devono essere messi a tacere», «nessuno pensi a fuggire». Gonfia a tal punto di bugie, questo giornale, che Helmut Weidling, ultimo generale chiamato a difendere Berlino, glielo rinfaccerà in una drammatica riunione tra le anguste stanze del bunker: «Noi combattiamo, ma lei con quel suo giornale sta alimentando speranze insensate, delle assurde menzogne».
Le fake news nascono proprio nel bunker. Goebbels detta gli articoli ai suoi fedelissimi nell’anticamera delle stanze di Hitler, convoca generali e gerarchi e li porta a vergare alcuni editoriali, ordina alle Pk, le Propagandakompanie, soldati-giornalisti che per cinque anni avevano falsificato la storia della guerra, di raccontare le gesta dei berlinesi, vittime ignare dell’appello al martirio dei nazisti. Il Panzerbär invita tutti a combattere, «perché dietro la crosta dura di quest’orda di mongoli che sta attaccando Berlino c’è il vuoto e insieme possiamo ribaltare la situazione militare»; chiama a «schierarsi contro i bolscevichi perché armate di valorosi tedeschi stanno arrivando da Nord, Sud, Est e Ovest»; incoraggia i berlinesi a sacrificarsi «per difendere la loro città, presa alle spalle da un branco di cagnacci bastardi che agiscono con rabbia solo quando sono in gruppo, ma poi finiranno per sbranarsi tra loro un attimo prima che Berlino si riveli per quello che è, ossia un istrice che conficcherà i suoi aculei nelle gole dei barbari, soffocando il loro urlo di vittoria».
Ma è solo un’enorme bugia. Non ci sono armate, non ci sono rinforzi, non c’è il vuoto. Goebbels lo sa, ma insiste nel suo canto. Recupera una macchina per stampare il giornale, organizza una tipografia di fortuna all’aeroporto di Tempelhof, nelle cantine del glorioso palazzo della Ullstein, la casa editrice dell’omonima famiglia ebrea di cui i nazisti avevano fatto preda e scempio. Poi deve spostarla, perché i russi si prendono il quartiere. La tipografia è così fortunosamente risistemata a pochi metri dal bunker, in una cantina tra i ruderi della Kochstrasse.
Eppure, la vita del giornale procede, come ho cercato di spiegare con La propaganda nell’abisso, edito da Lindau. Analizzati gli strumenti della propaganda goebbelsiana, ogni numero del Panzerbär è confrontato con la realtà storica, giorno per giorno, dimostrando l’immane opera di mistificazione del giornale. Sul libro sono riprodotte tutte le pagine pubblicate e tradotti gli articoli principali. Quotidianamente il giornale pubblica un editoriale di alto rango (firmato da Goebbels ovviamente, ma anche da Werner Naumann, Helmut Reymann, Wilhelm Mohnke, Alfred Rosenberg), qualche cameo di poche righe (uno firmato dallo stesso Hitler, la sua ultima orrenda traccia), il bollettino di guerra (talmente falso da non vedere il ricongiungimento tra americani e russi), un reportage (dal Plaza in fiamme, dalle metropolitane trasformate in campi di battaglia, da osterie diventate cimiteri e trincea), un ritratto (il ragazzino ferito che ha abbattuto un carro armato, una donna che ha perso tutto e vuole combattere) e diverse bugie politiche (americani e russi stanno litigando, Göring si è ammalato).
Tutte menzogne colossali, come quella che l’editoriale non firmato dell’ultimo numero (riconducibile a Goebbels per la somiglianza al suo testamento politico): «La guerra non l’hanno voluta i tedeschi, ma i comunisti e gli ebrei e il Terzo Reich è chiamato fino all’ultimo respiro a combattere per salvare l’Europa». Il Reich millenario è invece ridotto a un mercato della fame, dove la burocrazia, imperterrita (tanto da imporre la gerenza persino sul Panzerbär), misura le quantità di grassi e carne in scatola da distribuire (e che il giornale riporta, evitando di dire che sono sufficienti solo per un paio di giorni), o descrive la durata dei nuovi allarmi anticarro. Nei primissimi giorni Goebbels conta su qualche mezzo di fortuna per gettare qualche copia del giornale oltre le linee, una volta con un aliante, ma poi si chiude sempre più nel bunker, attorniato dai fedelissimi: a cominciare da Heinz Lorenz, giornalista di fiducia, che batterà gli articoli fino all’ultimo incarico, quello di portare una copia del testamento di Hitler a Dönitz.
Quel giorno è il 29 aprile: Hitler organizza la sua cremazione, Goebbels raccoglie il cianuro per i figli e gli ultimi pacchi del Panzerbär giacciono tra i palazzi diroccati perché anche i bambini strilloni sono in fuga. L’Armata rossa ha i suoi artigli sul Reichstag e il nazismo si spegne lasciando in eredità il suo rigor mortis, il più bugiardo di tutti i giornali.