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 2021  dicembre 19 Domenica calendario

Biografia di Graziano Mesina

Alberto Pinna, Corriere della Sera
Si spegne il mito dell’ex numero uno di un banditismo sardo che non c’è più: quello delle faide, delle Anonime Sequestri, delle rocambolesche evasioni, degli scontri a fuoco, dei miti di «balentìa» che a metà del secolo scorso accendevano gli entusiasmi di sprovveduti giovani (applausi al fuorilegge e non alla polizia che lo aveva catturato) e affascinavano non poche turiste in cerca di emozioni spinte sul Supramonte.
Mai pentito: «Se ho sbagliato, ho pagato abbastanza»; 42 anni di carcere, una fedina penale chilometrica, la grazia concessa nel 2004 e vaghi propositi di «cambiare vita», spazzati via nove anni dopo da un ordine di cattura con un’accusa che aveva d’un colpo cancellato la fama di fuorilegge duro ma leale: essere il capo di una banda di spacciatori di droga. Reato che l’antico codice barbaricino annovera fra le peggiori infamie.
La vita spericolata di Graziano Mesina è un crogiolo di delitti ed enigmi. Alle elementari, prese a sassate il maestro. Adolescente, precoci manette: oscurò a fucilate i lampioni di Orgosolo (arma rubata). Fuggì dalla caserma, mentre attendeva di essere interrogato. Prima condanna: sei mesi. Non ancora maggiorenne, vindice dell’onore di famiglia (11 figli, e zia Caterina, madre padrona): sparò all’uomo che accusava i fratelli di un rapimento con uccisione dell’ostaggio. Seconda condanna: 16 anni per tentato omicidio (i fratelli furono riconosciuti innocenti e scagionati). E anche seconda evasione, dal treno che lo portava da Nuoro a Sassari per un processo. Cattura, seguita subito da una terza evasione, da manuale. Fingendosi malato, all’ospedale di Nuoro, annodò le lenzuola, si calò dalle finestra e rimase tre giorni rinchiuso dentro un tubo. Da latitante, primo (e unico) omicidio: sventagliate di mitra contro un pastore sospettato di avere ucciso il fratello Giovanni. Ventenne, Grazianeddu aggiunge 24 anni a un casellario giudiziale già esuberante.
Non c’è carcere dal quale Mesina non abbia tentato di evadere: Volterra, Montelupo Fiorentino, Porto Azzurro, Viterbo, Spoleto, Procida, Favignana, Trani ,Fossombrone, Novara. Almeno otto fughe gli sono riuscite. A Sassari la più clamorosa, nel 1966: mura scavalcate con un balzo di sette metri, latitanza con lo spagnolo Atienza, disertore della legione straniera, e via all’Anonima Sequestri: sei rapiti e un conflitto a fuoco con la polizia, due agenti uccisi (Messina fu assolto: pallottole vaganti). Notorietà, interviste, vanterie: «Avrei potuto abbattere a mitragliate l’elicottero con il presidente Saragat».
Sono gli anni del mito dell’imprendibile «re del Supramonte», del separatismo e del sogno di una Sardegna «Cuba del Mediterraneo», ma Mesina — dopo approcci con i servizi segreti — rifiuta il ruolo di capo guerrigliero offertogli dall’editore Giangiacomo Feltrinelli. E nel 1968 viene arrestato (o, vox populi, si costituisce in cambio di 300 milioni).
Detenuto quasi modello, in attesa di una promessa semilibertà. Che non arriva. E nel 1976 ennesima evasione da Trani, con un gruppo eversivo neofascista; ma Mesina non è fatto per la politica e si rifugia a Milano da Francis Turatello. «Gli mandai due ragazze per divertirsi — è scritto nelle carte del processo al boss — dopo tre giorni chiesero di venir via. Grazianeddu era troppo esuberante».
Nuova cattura a Trento, condanna, buona condotta e finalmente nel 1992 la semilibertà, con la «missione speciale» di mediatore per il sequestro di Farouk Kassam, liberato — secondo fonti ufficiali — senza che sia stato pagato alcun riscatto. «Vennero pagati 400 milioni», versione di Grazianeddu, che diceva di sapere molto (mai peraltro rivelato) su quel rapimento. Misteri ed enigmi non chiariti, neanche dopo la grazia; neanche dopo l’apparente ritorno alla vita «normale» di guida turistica, e di commerciante di prodotti per l’agricoltura, paravento — è scritto nella sentenza in Cassazione — della nuova attività: capobanda di spacciatori di droga.

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Marcello Fois, La Stampa
Ricordate Hiroo Onoda? Era il militare giapponese che per trent’anni si era rifiutato di credere che la Seconda Guerra mondiale fosse finita e si era reso introvabile nella Jungla di Lubang fino al 1974. Con la stessa presa patetica, e un po’ deprimente, è stato arrestato, a Desulo, poco distante da Orgosolo, dopo mesi di latitanza, Graziano Mesina. Proprio quel Grazianeddu, la primula rossa del banditismo sardo. A vederlo oggi bolso, rattristato è l’immagine di quanto sia reale quel verso di Guccini che canta «gli eroi son tutti giovani e belli». E fa capire fino a che punto i miti giovani sono quelli più duraturi. Si fatica a immaginare Marilyn Monroe ottuagenaria e sfigurata dal botulino, o James Dean calvo e con la pancia prominente. Grazianeddu era la quintessenza del barbaricino: agile, asciutto, scattante come un muflone tra le rocce. Era un giovane Robin Hood a cui ognuno per una brevissima stagione avrebbe dato una mano. È stato un Balente nel senso aureo del termine. Oggi di quel «balente» è rimasto poco, invischiato in quella modernità che asseriva di voler combattere quando aveva deciso di farsi giustizia da solo; alterato nella lettura della realtà dalla lente distorcente della leggenda privata; invischiato nelle malie di un narcisismo da rotocalco, quel ragazzo scattante e di poche parole è diventato un anziano che imita se stesso. Con la medesima incapacità di cedere le armi e le mostrine del suo triste collega giapponese, Graziano Mesina, non Grazianeddu, ha ridotto a poca cosa, fino al folk, quell’appellativo, Balente, che per noi sardi di Barbagia è diventato un passepartout antropologico. Ma anche l’espressione di un sentimento arrogante, presuntuoso, talmente limitato alla sua qualità reattiva e antagonista da essere la rappresentazione plastica di una resa definitiva piuttosto che di quella che è stata, erroneamente, intesa come «costante resistenziale del popolo sardo». Quel concetto così profondo, coniato da Giovanni Lilliu, basato sulla «fedeltà alle origini autentiche e pure», aveva a che fare col presupposto che un popolo è tale quando si accorda perlomeno sulle macrocategorie di «autenticità e purezza», e smette di esserlo quando quelle stesse macrocategorie diventano l’alimento di chiunque le proclami facendosene portatore unico, rappresentante monomandatario. Per potersi permettere queste categorie e questo concetto talmente complessi occorre dunque, innanzitutto, sentirsi popolo, se non, addirittura, esserlo. Occorre che il fenomeno si manifesti dal basso, non certo dall’alto tramite chi ha la sicumera di accreditarsi come unico «sardo autentico e puro» di turno. La nostra Regione è vessata da questi pezzi unici in gambali e vellutino autentici «a modo loro» come le famiglie infelici di Tolstoij. Tutti intelligentissimi e forbitissimi, tutti enfants prodiges, tutti tanto «autentici» da sembrare sintetici, un prodotto che alligna solo tristissimi luoghi comuni: abbigliamento e atteggiamento in primis. Costoro di volta in volta ci raccontano di una tipologia locale costruita a misura della loro presunzione, spesso più adeguata ai modelli di sopraffazione del colonizzatore che al raggiungimento di una grammatica resistenziale condivisa. Fateci caso, ma il senso di autenticità e purezza di questi individui speciali si ferma di fronte alla più comune, e tutt’altro che resistenziale, categoria del tornaconto personale. Mesina stesso, dopo aver scontato anni di galera venne riarrestato ufficialmente per detenzione di armi, ma i più informati dissero per punirlo di un’esposizione narcisistica, e ben pagata, avendo concesso, nonostante l’impegno del silenzio, interviste esclusive in merito alla sua mediazione per la restituzione del giovanissimo Farouk Kassam rapito dall’anonima. Accade di fare i sardi, piuttosto che esserlo, senza avvedersi che c’è una forma di colonialismo introiettato nel copione identitario che si sta recitando: s’indossa l’elaborazione glamour del semplice abito locale; si mostrano «meraviglie» a combriccole di amici continentali che contano o a gruppi di ricchi sponsor locali agognando di farne parte. Si può millantare autonomia nei toni, ma essere dipendenti, incapaci di evolversi, nella sostanza. 

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Brunella Giovara, la Repubblica
Ci fu un giorno in cui Graziano Mesina gridò tutta la sua rabbia di bandito incompreso. Era il luglio del 1993, e all’epoca era una specie di eroe nazionale. Aveva contribuito, non si è mai capito bene come, alla liberazione di un bambino di 7 anni sequestrato in Sardegna che si chiamava Farouk Kassam e che era stato infine lasciato vivo, e restituito alla sua famiglia per 5 miliardi di lire e rotti, senza un orecchio. Mesina era comparso — a sorpresa — in diretta in prima serata su Rai Uno, annunciando il lieto fine della storia. Ma pochi mesi dopo — un’altra sorpresa — era stato arrestato dai carabinieri. A San Marzanotto d’Asti, dove era in libertà condizionale, in una specie di casa di campagna poco accogliente dove riceveva alcuni giornalisti, uno tra tutti Indro Montanelli, e altri meno importanti. Quel giorno l’eroe Mesina era appena tornato in manette: nel cascinale c’erano delle armi, non robetta. Un Kalashnikov, e altre cose del tipo da guerra. Il generale Francesco Delfino annunciò sull’aia l’arresto, poi arrivò l’ex eroe, furibondo, stretto tra due carabinieri, ebbe il tempo di gridare a un giornalista «non hai capito un caz...», infine venne zittito e portato via e amen, fine del famoso Grazianeddu.
Mai dire mai, però. L’uomo è ambizioso, protagonista, seduttivo. Di fama, qualche gradino sotto un altro bandito celebre come è stato Salvatore Giuliano, ma la prima differenza con Turiddu è che Graziano è un’araba fenice: nessuno gli ha mai sparato, nessuno è mai riuscito a tappargli la bocca, e si è sempre salvato come un Rocambole, infatti siamo qui a raccontare la fine della sua ennesima latitanza, all’onorabile età di 79 anni. Un anziano delinquente, dunque. Sembrava anziano anche allora, quando il piccolo Kassam era prigioniero in una grotta sopra Lula, e Mesina dalla sua residenza astigiana negava di saperne qualcosa, salvo poi farsi sorprendere mentre parlava con il padre del rapito, Fateh Kassam, e due uomini dei servizi segreti, in una piazzola sulla Asti-Alba.
Che bugiardo, sempre. Più che altro, un furbone, e abile a maneggiare l’opinione pubblica, che vedeva in lui un relitto onorevole del tempo che fu, quando la “balentia” significava ancora qualcosa. Che sperò potesse fare qualcosa per salvare il bambino (e qualcosa fece), che per qualche tempo ancora coltivò in lui il mito del bandito santo. L’ultimo, a parte Attilio Cubeddu, ben più pericoloso, carceriere feroce di Giuseppe Soffiantini e di altri, tuttora latitante, forse morto, uno dei ricercati più ricercati dal Viminale.
Riuscì a farsi graziare dal presidente della Repubblica, era il 2004, uscì trionfante dal carcere di Voghera promettendo una vita nuova, basta con le supercarceri e la massima sicurezza. Un agnello, insomma. Le sorelle lo accolsero a casa, dopo un po’ si mise a fare la guida turistica. Ma la Sardegna lo aveva già abbandonato. La Sardegna è un’altra cosa, il turismo non ha bisogno di gente come lui, e ancora l’anno scorso sulla piazza di Orgosolo tutti ma proprio tutti ne parlavano con un certo fastidio, «ancora Mesina... c on tutti gli agriturismi che abbiamo, venite ancora a chiederci di lui».
Intanto, si facevano le battute sul Supramonte, e i Cacciatori di Sardegna rientravano la sera in caserma avendo trovato sulla montagna turisti inglesi sperduti tra le rocce, qualche piantagione di marijuana, la routine insomma. Mesina? «A casa di qualcuno, di certo non in un ovile», dicevano gli investigatori, e così è stato trovato. L’età non gli permette latitanze impervie o evasioni da Lupin come ha già fatto dalle carceri di Macomer, Nuoro, Viterbo, Spoleto, Sassari, Lecce. Allora era giovane, magro, audace, sicuro. Era arrogante, l’unica cosa che gli è rimasta. «Io sono Mesina!», diceva ai turisti a Orgosolo, ma il fascino era già svanito. Poi era arrivata la condanna definitiva a 30 anni per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga. Altro che “balentia”, più che altro delinquenza comune. E poteva campare come un mito, o un prodotto locale come il mirto, il pane carasau e i Mamuthones. Invece finisce a Badu ‘e Carros, ex “banditeddu”, ex latitante, ex.