La Lettura, 18 dicembre 2021
La televisione di Ghezzi
C’è un’espressione che ricorre più volte nel libro di enrico ghezzi L’acquario di quello che manca (La nave di Teseo): «Dammene troppa». È tratta da un aneddoto di Nicolas Chamfort: un bambino chiedendo alla madre la marmellata continuava a pregarla «Dammene troppa»; in questa fanciullesca richiesta è forse racchiusa l’unica chiave che l’autore ci suggerisce per entrare nella sua scrittura: «“Dammene troppa”, per me, è innanzi tutto un dato puramente biografico. Dal momento in cui ho inquadrato questa frase, mi è parso di trovare il modo di impegnarmi, un po’ ciecamente, in alcune dispute con il linguaggio, con l’istanza del linguaggio, fin da quando ho iniziato a parlare, con i giochi di parole, le ripetizioni, le ossessioni».
L’acquario di quello che manca è un libro che conserva la fisiognomia del suo autore, è lo specchio di enrico ghezzi (sempre scritto minuscolo, chissà per quale sfuggente civetteria!). A partire dai primi articoli scritti sul declinare degli anni Sessanta fino agli ultimi lavori, il ponderoso volume raccoglie interviste, lectio magistralis, rubriche giornalistiche, idee per spot pubblicitari, articoli d’occasione apparsi su molte testate, principalmente per «il manifesto», ma anche per «Rolling Stone», il «Corriere della Sera», «La Stampa», «la Repubblica», «Nòva/Il Sole 24 Ore», «l’Unità» e molte altre riviste.
Non è facile districarsi fra le oltre 700 pagine (è un effetto voluto), proprio a partire dalla scrittura, che ricorda molto la tecnica del monologo interiore, resa famosa da Édouard Dujardin, da Joyce e ripresa poi da Faulkner. Nonostante una divisone per argomenti, è quasi impossibile separare un contributo dall’altro, la parola scritta da quella orale, la realtà mentale da quella oggettiva. enrico ghezzi scrive e parla in modo elusivo, quasi misteriosofico, ogni parola è una realtà plurima, ogni frase mescola di tutto senza un’apparente logica precisa, ogni osservazione emerge dall’inconscio piuttosto che dalla coscienza osservatrice (la psicoanalisi è sempre stata una sua passione). L’impatto della «parola viva» sul corpo materiale della parola scritta produce effetti di compiuta integrazione della corporeità all’interno delle possibilità espressive del dettato linguistico. In questo senso, credo che il suo capolavoro assoluto siano state le presentazioni fuori sincrono di Fuori orario, un colpo di genio per creare nuovi stilemi e nuove forme di rappresentazione della soggettività: per lui, tutto dev’essere «fuori» qualcosa, dev’essere sempre «troppo».
E tutto deve nascere dal profondo, anche la casualità «È il 1989. Mancano tre ore alla messa in onda del primo fuoriorario – cose(mai)viste, una scheggia dalla durata variabile inventata (lavoro al palinsesto di RaiTre, e da qualche mese opera la fabbrica del duomo di Blob) per coprire buchi o dilatazioni della Samarcanda di Santoro e Mantovani. Indeciso sulla sigla, mi gingillo tra qualche disco e cinque o sei scene di film, mentre il montatore finisce di assemblare il John Ford scabro e feroce di The Battle of Midway con una partita di pallavolo accanitissima tra Iran e Iraq. Fuller, Sirk (Secondo amore, il televisore che si spegne sulle sue mirabilie annunciate), Rohmer, Rossellini, Mankiewicz, iolaconoscevobene, Ophuls, Renoir. E John Fahey, un istante di chitarra di Blind Joe Death, vocalità sublimi da Orlando di Lasso o da Josquin des Prés, l’avvio di (I can’t Get No) Satisfaction o di Gimme Some Lovin’, Summer in the City o What a day for a Daydream dei Lovin’ Spoonful, Peter Green the end of the game. Manca un’ora e registro la presentazione (F.O. era ignoto e inatteso, una quarantina di minuti non previsti nella programmazione ufficiale di quel 2 novembre 1989). Attacco con gli auguri a mia figlia Aura nata un anno prima, parlo di aura e della riproducibilità tecnica paradossale della stessa. Poi – lo so, lo sapevo – spiego farfugliando perché la sigla è banalmente quella (l’amore tra corpi immagine immaginario acqua aria asfissia visione realtà nella scena subacquea dell’Atalante di Vigo, e un pezzo di Because the Night). Ho deciso mentre registravo, e dico che mi pare una sigla troppo bella e precisa, suono e immagine si attaccano perfettamente ma è sempre misteriosamente così, lo proveremo cambiando sigla ogni settimana».
La citazione è lunga, lo so, ma forse il modo più corretto per recensire questo libro sarebbe quello di procedere solo per citazioni, secondo la lezione di Blob. Ricordo una frase di Angelo Guglielmi, allora direttore di Raitre: «Non esiste un altro programma nel panorama mondiale che possa dare un’idea della tv come Blob. Noi facevamo la tv e anche l’oltraggio alla tv».
Blob ha visto la luce il 17 aprile 1989. In tanti anni ha mostrato molte cose ed è stato molte cose: un montaggio di citazioni prese a prestito da altri programmi, un espediente critico per analizzare la tv, il trionfo dell’autoreferenzialità (la tv che parla di tv), un divertente collage di frammenti che catturano ed esibiscono impietosamente papere, disturbi, errori, dichiarazioni folgoranti, vuoti, lapsus, gaffe. Blob è video allo stato puro, con il suo repertorio di formule logorate dall’abuso e il suo arsenale di frasi fatte, a riprova che il vuoto è fatto di pieni.
Il Blob delle origini era un’operazione squisitamente linguistica ed esprimeva come nessun altro programma uno stato d’animo: la voglia di frammentare, di sconnettere, di ritagliare; il desiderio iconoclasta di abbattere i miti delle sequenze compiute; il trionfo del regno dell’uguale, dove non esistono più gerarchie. Oggi Blob è una tribù che sacrifica incessantemente a sé stessa le spoglie vuote e splendide della tribù inabissata.
Scrive enrico ghezzi: «Il montaggio, lavoro postumo e riflessivo per eccellenza, scelta, riordino, secondo sguardo, intervento sui materiali raffreddati e dissezionati, si trasforma a sua volta in diretta. Affannosa diretta, Blob non si rivede, non si rimonta, non si trucca allo specchio, deve correre all’appuntamento. Nessuno lo vede e controlla prima della messa in onda. Il completamento, la forma che quella sera, stasera, domani sera ha assunto o assumerà, sono affidati da sempre a voi, a vostri codici sparsi, alla vostra disattenzione, al vagare dei vostri occhi, al vostro desiderio di lettori, alla vostra immaginazione di terroristi o di pacifisti. Blob attende lo sguardo, le lame altrui che entrino barbare o civili nella sua carne, negli interstizi, a curare o a uccidere, a torturare o ad accarezzare» (1993).
Dal 1987, nel periodo della direzione di Angelo Guglielmi, enrico ghezzi è passato a occuparsi del palinsesto di Raitre. In tale ruolo ha ideato programmi che sono diventati negli anni autentici punti fermi di una concezione critica e innovativa della televisione, sia in riferimento a una lettura trasversale e paradossalmente graffiante dei modelli televisivi (come nel citato Blob), sia rispetto alla stessa memoria storica del mezzo televisivo (come nelle rubriche Schegge e Vent’anni prima), nonché al recupero e alla divulgazione di classici o di rarità filmiche (come nel ciclo notturno di film Fuori orario). Guglielmi ha introdotto in Rai un metodo prezioso: non è sufficiente fare i programmi, bisogna anche accompagnarli con un corredo teorico, inserirli in una linea editoriale, alzare il livello della discussione per prevenire ogni critica. Per esempio, amava teorizzare che certi suoi programmi, come Chi l’ha visto? condotto da Donatella Raffai, rappresentassero un capitolo nuovo della letteratura popolare, fossero un esempio di neo-neorealismo: «Raccontare la realtà attraverso la realtà», secondo una lezione pasoliniana.
Anche enrico ghezzi ha sempre teorizzato il suo lavoro. In un articolo sul «Corriere della Sera» del maggio 1994 scrive: «Nel gioco realissimo di capitalismo avanzato e sublimato che è la televisione, Raitre è stata, nel presente, un piccolo pezzo di “mondo nuovo”. Non perché ha trasmesso o non trasmesso i valori della sinistra, ma perché ha attraversato il corpo sociale, lo ha smontato, lo ha finto o inventato, ha giocato in lui e con lui (Chi l’ha visto?, Mi manda Lubrano), ha mandato in cortocircuito pezzi di linguaggio e di istruzioni lontani e separati (con Un giorno in pretura, programma fondamentale e anticipatorio in direzione trasparenza mani pulite; e oggi persino utopico come ipotesi di “gogna mediatica” forse odiosa ma certo preferibile, in un futuro “immaginario”, a pene detentive o di morte...), ha spesso (Santoro) costruito la cronaca mentre la narrava».
Sono affermazioni non sempre condivisibili (anche se il rapporto tra i processi trasmessi in tv e «mani pulite» meriterebbe un capitolo a parte), ma che costringono l’interlocutore ad alzare il tiro, a discutere di linguaggi, non solo di contenuti.
Resta un’interessante questione di fondo: enrico ghezzi è un cinefilo «costretto» a fare televisione, a piegare il cinema alle esigenze televisive? Non c’è dubbio: il cinema resta la sua «magnifica ossessione». Prende così il via alle nove del mattino del 28 dicembre 1985, con una ricca antologia di immagini dei fratelli Lumière, la più lunga maratona dell’immaginario cinematografico mai realizzata dalla tv italiana: è il «Dammene troppa». Un programma di quasi quaranta ore per i novant’anni del cinema, una non-stop di Raitre che si concluderà all’alba del giorno successivo. Scrive enrico ghezzi: «Esorcizzare i novant’anni (età bellissima, peraltro) dell’ufficialità della commemorazione con gli sbalzi e le incertezze della memoria, con gli stati di una storia tutta fatta di compresenze, di sovraimpressioni; non è questa, fino a oggi, la prima e unica lezione del cinema? Cosa, allora e non programma. Cosa come “mutante” (Carpenter) assoluto, eventualmente “programma” solo in senso generativo, ventaglio di possibilità logiche e di agganci, forma vuota atta a produrre contenuti plurimi e giochi biforcantisi. Un film, sicuramente, oltre che una cosa piena di film. E film immediatamente mutati in televisione, pura televisione, perfino con gli “inconvenienti della diretta”; il primo quarto d’ora in spagnolo (senza sottotitolo), ovviamente “grave” disguido tecnico nell’orgasmo della messa in onda (una pista al posto dell’altra, l’audio tenuto basso...) di Cime tempestose di Buñuel, poi il resto in italiano. (…) Cosa televisiva/cosa cinema. Espansione fino all’esplorazione. E implosione, se si pensa che dilatare la durata di un “evento-cinema” in tv è fare l’esatto opposto della norma – la programmazione cadenzata per appuntamenti ciclici: dilatazione di una concentrazione, la magnifica ossessione (ha una durata l’estasi?)».
L’acquario di quello che manca va letto come una sorta di grande Blob, un curioso esempio di critica-collage che tutto mescola alla ricerca di nuovi statuti estetici o di appunti di viaggio nel cuore del cinema che è dentro il cuore della televisione che è dentro il cuore della vita.