La Lettura, 18 dicembre 2021
Intervista a Francesco Sabatini
A rifare le tappe del suo cursus honorum ci si metterebbe troppo. Dunque, basti dire che è il decano dei linguisti italiani e il presidente onorario dell’Accademia della Crusca, che ha presieduto attivamente dal 2000 al 2008, promuovendone il riconoscimento come ente pubblico. Ma più di tutto serve ricordare che, novant’anni il 19 dicembre, Francesco Sabatini non è stanco di nulla. Tanto meno è stanco di combattere sul fronte della lingua italiana, di studiare, di organizzare e partecipare a convegni, di leggere, di discutere, di scrivere. Appartiene a una generazione infaticabile e illustre di studiosi, filologi, lessicografi, storici della lingua, ma rispetto ai colleghi accademici è certamente meno accademico, tant’è vero che è diventato famoso offrendo ogni domenica mattina su Raiuno alle famiglie italiane il suo Pronto soccorso linguistico. Con uno straordinario equilibrio tra cordialità, chiarezza e severità paterna. Senza dimenticare che a Sabatini si devono studi fondamentali che vanno dall’attribuzione a Boccaccio della cosiddetta Epistola napoletana fino alla teoria della grammatica valenziale, che rivoluziona il modo di analizzare la frase. Un arco di interessi incredibilmente ampio. In cui c’è il suo Abruzzo, a cui ha dedicato anche una giovanile esperienza politica negli anni Cinquanta, quando è stato consigliere comunale del suo paese, Pescocostanzo, occupandosi del Piano regolatore, per evitare gli scempi edilizi nel centro storico. E dunque, data la ragguardevole meta anagrafica raggiunta con slancio, più che dello studioso ci occupiamo della sua vita.
Francesco Sabatini, che origini ha la sua famiglia?
«La mia famiglia ha origine da un artista di ascendenza bolognese, chiamato nel Seicento a Pescocostanzo per costruire i soffitti a cassettoni nella Collegiata. La sua discendenza si è radicata in paese, dove c’era molta committenza d’arte. I miei antenati erano borghesi, dediti alle arti e alle professioni. Nell’Ottocento dichiaratamente liberali. Un mio prozio era canonico e ardente patriota, perseguitato dalla polizia borbonica».
E suo padre?
«Mio padre, Gaetano, era medico, dapprima medico condotto in vari paesi, poi ha esercitato privatamente. È stato anche volontario negli ospedali militari del Nord durante la Grande guerra. Si è sposato tardi, a 61 anni, nel 1929, con Bianca D’Eramo, di un paese vicino (Introdacqua), famiglia di garibaldini e repubblicani. I miei zii materni avevano nomi Menotti, Imbriani, Mazzini, Italo, Italia».
A cosa deve l’amore per la storia e la lingua?
«Mio padre aveva grande passione per gli studi storici e ha trasmesso a me e a mio fratello Giuseppe, anche lui medico, un carico fortissimo di memoria storica: non solo del Risorgimento, ma estesa al Medioevo. Aveva pubblicato documenti medievali conservati nella biblioteca di famiglia ed era in contatto con una cerchia di intellettuali degli anni Trenta. La formazione scolastica di noi figli era ampiamente rinforzata dall’apporto paterno. Di sera mio padre ci leggeva I promessi sposi e i romanzi di Guerrazzi e D’Azeglio. Cuore, Pinocchio, I tre moschettieri, Salgari li leggevamo da soli».
Anche lei trova un interesse particolare per la storia della sua regione?
«La componente storica, soprattutto storico-territoriale, mi ha sempre accompagnato. Mio tema principale è stato quello della “Via degli Abruzzi”, cioè delle grandi correnti di scambi commerciali e culturali che legarono l’Abruzzo alla Toscana nel tardo Medioevo per il commercio della lana e poi alla Lombardia, con l’afflusso delle maestranze impiegate nella ricostruzione dopo i grandi terremoti del 1456 e del 1703-1706. È anche la via che portò l’esercito piemontese e il re all’incontro di Teano nell’ottobre 1860. Al passaggio della truppa, la mia famiglia mandò sacchi di grano per i rifornimenti».
Erano anche posti che piacevano ai letterati.
«Nel decennio anteguerra, mentre nella vicina Roccaraso si celebravano i fasti delle villeggiature mondane (d’inverno venivano anche i Savoia), a Pescocostanzo soggiornavano alcuni intellettuali: il filosofo Adolfo Omodeo, l’orientalista Giuseppe Tucci, il neuropsichiatra Ugo Cerletti. Nel dopoguerra veniva anche Natalia Ginzburg con il figlio Carlo. E l’urbanista Leonardo Benevolo, da cui come consigliere comunale ottenni gratuitamente il Piano regolatore».
In casa si parlava più il dialetto o l’italiano?
«In famiglia c’era una costante immersione nella cultura italiana, ma erano intensi i rapporti con l’ambiente locale, almeno fino al nostro trasferimento a Roma, che avvenne nel 1940. In casa si parlava stabilmente l’italiano, ma con venature regionali, soprattutto di lessico. Il comodino si chiamava colonnetta e l’asciugamani tovaglia. Ma dall’ambiente circostante ho appreso con facilità il dialetto locale: ogni tanto lo tiro fuori, per divertimento o per riflessione scientifica».
Per la recente istituzione del Parco Letterario Benedetto Croce, lei ha avuto modo di studiare i legami del filosofo con l’Abruzzo. Che cosa ne ha ricavato?
«Nel paese paterno, Montenerodomo, è stato una sola volta dopo la guerra per salutare un cugino e visitare la biblioteca di famiglia. A Pescasseroli, paese della madre, si è fermato un paio di volte: nel 1910 fece una conferenza agli abitanti dal balcone della casa materna. Di recente è emersa l’importanza di Raiano, vicino a Sulmona, che frequentava per villeggiatura tra il 1905 e il 1913».
Anche lì aveva una casa di famiglia?
«Era ospite di una cugina in un palazzo signorile, dove ha ricevuto l’editore Laterza, quando ha creato la collana degli “Scrittori d’Italia”. Lì viveva con la sua prima compagna di vita, la romagnola Angelina Zampanelli, morta di tisi in quel paese. Da Raiano, quando ormai era senatore, Croce poteva muoversi facilmente grazie alla ferrovia e poteva restare in contatto con corrispondenti italiani ed europei. Ha anche intrecciato fitti rapporti con studiosi abruzzesi, storici, archeologi, eccetera. Insomma, studiando le lunghe vacanze dall’agosto all’autunno, si coglie il suo legame con l’Abruzzo: soprattutto per ciò che ha dato, più che preso».
Che cosa ricorda della guerra?
«Con i bombardamenti su Roma i miei genitori decisero di stabilirsi a Pescocostanzo, dove tra le montagne si sentivano più al sicuro che a Roma. Il 19 luglio 1943 si trovavano sotto le bombe alla stazione Tiburtina: erano rientrati quel giorno a Roma per prendere i vestiti pesanti che sarebbero serviti al paese durante l’inverno. Riuscirono a tornare, ma con la linea Gustav gli ufficiali tedeschi ci occuparono la casa per due mesi e mezzo. Ricordo le segrete conversazioni in francese di mio padre con un tedesco che gli confidò che lì sarebbe finito tutto raso al suolo e gli consigliò di prepararci a scappare».
Come riusciste a fuggire?
«Gli altri abitanti si rifugiavano nei boschi, ma i tedeschi restarono otto mesi sotto gli attacchi degli alleati: ci fu un eccidio a Pietransieri in cui i nazisti fecero 128 vittime, 34 delle quali erano bambini sotto i dieci anni. Noi incerti fummo caricati su un camion tedesco che rastrellava gli ultimi sfollati per portarli a Nord: infatti alcuni furono scaricati all’Aquila, altri a Padova. Fatto sta che a Sulmona il camion si fermò davanti a una birreria e mentre i tedeschi bevevano birra riparammo in casa dei nonni materni».
Lì finalmente eravate al sicuro?
«Rimanemmo nascosti per paura di essere ripresi e portati via. Avevamo qualche contatto inconsapevole con persone che poi seppi essere della formazione partigiana “Patrioti della Maiella”. Veniva a trovarci la sera, per chiacchierare con mio padre, un maresciallo dei carabinieri in borghese, passato dalla parte dei resistenti. E per qualche mese siamo rimasti in casa di un amico di famiglia, non sapendo che era entrato tra i partigiani della Maiella».
Vide l’arrivo degli americani?
«Me lo ricordo nettissimamente. E mi ricordo anche la libera circolazione dei patrioti della Maiella che andavano arrestando i repubblichini».
In che stato trovaste il paese al ritorno?
«La casa fu colpita da cannonate, incendiata e minata. Tutto ciò ha anche rafforzato il legame con la popolazione di quei paesi, con la quale ho vissuto sia l’esodo, sia la “ricostruzione”. La biblioteca di famiglia era stata trafugata dagli occupanti».
Che biblioteca era?
«Nelle famiglie locali di canonici, giuristi, professionisti si erano accumulate notevoli biblioteche di studio. In casa nostra c’era una discreta biblioteca con testi antichi, dal Cinquecento in poi, e anche manoscritti, che erano la gioia di mio padre. Quando seppe dall’ufficiale tedesco che la casa sarebbe stata distrutta, cercò di fare avere al comando, attraverso la deputazione di storia patria, un elenco dei libri antichi da salvare ma era tardi. In parte la biblioteca fu poi recuperata a Magonza nel 1991».
A Magonza?
«Subito dopo la guerra arrivò la lettera di uno sconosciuto tedesco, il quale ci mandava quattro libri, dicendo che li aveva trovati in uno scantinato a Lubecca di notte mentre arrivavano le truppe russe. Mio padre venne a sapere che in realtà si trattava di un giovane di Magonza e sospettò che i suoi libri fossero proprio lì. Andai a Magonza dopo qualche anno con una lista di libri in mano: non ne trovai neanche uno. Al ritorno, mio padre mi disse: senti, o tu non sai consultare i cataloghi – ero già professore! – o li hanno nascosti».
Aveva ragione?
«I nostri libri erano entrati nel bottino di Martin Bormann, il segretario personale di Hitler, ed erano stati trovati in una sua residenza nella Selva Nera dalle truppe francesi di occupazione, che li trasferirono negli scantinati della ricostituita Università di Magonza. Dove li scoprì, sulla base di una confidenza di un bibliotecario, una giovane catalogatrice, Anja Hölers, che rivelò tutto in una trasmissione televisiva in Germania».
Non ebbe dubbi sulla facoltà a cui iscriversi?
«Oscillavo tra Architettura, Giurisprudenza e Lettere, ma la formazione di base era storico-letteraria, pur avendo interessi anche per le arti. Mi sono laureato in Lettere alla Sapienza di Roma nel dicembre 1954, con una tesi in storia della lingua italiana discussa con Alfredo Schiaffini, Natalino Sapegno e Angelo Monteverdi».
Tre mostri sacri. I suoi primi studi avevano a che fare con l’Abruzzo?
«Avevo in casa due canzonieri autografi cinquecenteschi non trafugati che avevamo trovato malridotti sotto le macerie. Erano canzonieri di poeti locali che scrivevano in italiano nell’onda del petrarchismo e di Bembo: uno era popolareggiante, l’altro era di un raffinato medico chietino. Li trascrissi e li proposi a Schiaffini per la tesi. Ma sulla tesi si inserì un episodio imprevisto: misi un’appendice in cui segnalavo la presenza a Pescocostanzo di muratori che usavano un gergo di mestiere di provenienza lombardo-trentina...».
Come si spiegavano quelle presenze?
«Molte maestranze del Nord arrivarono in seguito ai terremoti, lasciando tante tracce. Ma non si sapeva di questo gergo, uguale a quello delle valli alpine. Monteverdi si incuriosì e mi invitò ad approfondire quel fenomeno. Pochi mesi dopo, nell’agosto ’55, ebbi un incontro casuale a Pescocostanzo con un geologo e grazie a lui finii a Firenze, al Circolo Linguistico, per parlare del gergo lombardo ancora vivo a Pescocostanzo. Lì c’era Contini che prendeva appunti e faceva commenti su tutto, e io ingenuo, che non l’avevo mai visto, gli chiesi: scusi, professore, lei come si chiama? Gianfranco Contini... Rimasi stordito. Mi consigliò di tornare a Roma, di parlare con Monteverdi e di dirgli di pubblicare quello studio su una delle riviste più prestigiose: “Cultura neolatina”».
Mica male come inizio...
«Schiaffini mi disse che avevo deposto le uova nel nido degli altri. Diventai assistente di Arrigo Castellani, che si occupava di questioni fono-morfologiche molto tecniche, a differenza dell’insegnamento storico-culturale di Schiaffini».
E però lei ha cominciato a insegnare a Lecce.
«Fu Maria Corti a propormi l’incarico a Lecce, perché stava lasciando la cattedra per trasferirsi a Pavia. Era il 1965 e cominciò l’amicizia con lei, che mi portò l’amicizia di Cesare Segre. Maria mi disse che non conosceva l’Abruzzo e mi chiese di organizzare un viaggio: venne con Segre e un giorno capitammo a Sulmona e all’eremo di Celestino V. Sulla strada incontrammo un eremita che si mise a conversare con Maria, prendendo gusto a dire che lui da quelle parti incontrava ogni tanto l’ombra di Celestino. Maria Corti era al settimo cielo nel sentire quei racconti fantasmagorici. Da allora, Maria e Cesare proposero a me e a mia moglie di raggiungerli nelle estati successive in Valle d’Aosta, a Courmayeur, a Cogne... Le vacanze si combinavano con Cesare, Maria Corti, d’Arco Silvio Avalle, Natalino Sapegno, Benvenuto Terracini e sua nipote Lore».
Altri mostri sacri della filologia, della linguistica, della critica... Che vacanze erano?
«Io e mia moglie, con il nostro primo figlio, eravamo in appartamento, gli altri in albergo, ma la sera venivano nel nostro tinello-cucina a bere il genepì. Sapegno, che era stato il mio correlatore, me lo vedevo lì in cucina con le pentole dietro la testa. Era un carattere freddo, distaccato. Le sue lezioni a Roma non destavano entusiasmo: arrivava in fretta, si sedeva, tirava fuori gli appunti, li leggeva a voce bassa e monotona e appena finito scappava via perché era pieno di impegni. Altra cosa era nella nostra cucina, davanti a un bicchiere di genepì».