La Lettura, 18 dicembre 2021
Storie di esilio
Alessandro Piperno per la Lettura
Ebbene sì, ho un debole per gli eruditi. Forse perché, avendone conosciuti parecchi, ho potuto riscontrare come di norma (con le dovute eccezioni) siano individui miti e insoddisfatti: anime infantili in preda all’euforia della quantità e della varietà. Infaticabili passacarte dello Spirito, sono sempre lì sul punto di perdersi travolti dall’incapacità di dare vita all’infinito materiale riciclato di cui dispongono.
Credo che Daniel Mendelsohn meriti un discorso a parte. Dotto è dotto, ma da buon classicista ed eccellente scrittore ha il dono della chiarezza e della precisione. Anche quando si avventura in territori che non gli sono propri, le sue citazioni si rivelano sempre al servizio di un ordito inappuntabile. Non sorprende allora che, a questo punto, all’apice di una carriera esemplare, abbia sentito l’esigenza di scrivere un libro bizzarro come Tre anelli: una divagazione sul piacere di divagare e sulla capacità di farlo senza smarrirsi.
Muovendo dai problemi compositivi incontrati lavorando al suo libro precedente, quello sull’Odissea – un libro ricco di spunti autobiografici, abbandoni lirici e dissertazioni moraliste – Mendelsohn analizza la cosiddetta «composizione ad anello», la tecnica resa celebre dallo studioso olandese W. A. A. van Otterlo. «Nella composizione ad anello» scrive Mendelsohn «la narrazione sembra divagare abbandonandosi a una digressione (il momento del distacco dalla linea narrativa principale è segnalato da una formula fissa o da una scena ricorrente), ma la digressione, l’apparente allontanamento, si rivela in realtà un cerchio, dato che la narrazione finisce per ritornare alla storia nel punto esatto in cui se n’era discostata (il ritorno è segnalato dalla ripetizione di quella stessa formula fissa o scena ricorrente che aveva marcato il momento del distacco). Sulla scorta di van Otterlo, Mendelsohn identifica l’archetipo di quest’arte della divagazione nel passo del Libro 19 dell’Odissea in cui Ulisse viene riconosciuto dall’anziana nutrice. «In questo momento pieno di suspance» commenta «il poeta sceglie di non passare subito a una commovente scena di ricongiungimento fra l’anziana donna e il padrone ricomparso dopo così tanto tempo. Introduce invece una pausa, e torna al passato, raccontando come Odisseo si era procurato la cicatrice – come, sulla soglia dell’età adulta, si era ferito a una gamba durante una caccia al cinghiale mentre si trovava in visita dal padre di sua madre, un famigerato imbroglione e attaccabrighe di nome Autolico». E non è la sola parentesi che il poeta si concede. Il suo scavo a ritroso nella biografia di Odisseo sembra non avere fine. Che ne è stato della nutrice? È ancora lì, il lettore non l’ha dimenticata, Omero lo sa bene. Così come sa che tutte le informazioni che ci sta fornendo contribuiranno a rendere il quadro morale ancora più emozionante. Ciò spinge Mendelsohn a concludere che «digressione non è mai sinonimo di distrazione. Tutte quelle svolte e quel girare in tondo convergono in un obiettivo univoco, ovvero aiutarci a comprendere la singola azione che è l’argomento dell’opera di cui fanno parte».
È così, chiacchierando, che, nel perorare la causa della narrazione ad anelli, Mendelsohn – in una gustosa mise en abyme – dà vita a un libro circolare che si apre e si chiude su un misterioso studioso in esilio a Costantinopoli. Strada facendo capiamo che si tratta di Erich Auerbach, uno dei massimi filologi di sempre oltre che l’autore di Mimesis, un saggio fondamentale per chiunque voglia intraprendere una carriera di scrittore realista. Si dà il caso che quel fortunato capolavoro sia stato scritto in condizioni materiali e psichiche che dire estreme è eufemistico: in fuga dalle purghe hitleriane, lontano dalle fornitissime biblioteche tedesche, in uno stato di frustrazione, terrore e semi-indigenza. Prendendo a modello le peripezie picaresche del filologo tedesco, Mendelsohn postula la corrispondenza segreta e ineluttabile tra esilio e digressione intellettuale. Non deve sorprendere allora che, nel fiume delle sue riflessioni, si soffermi su un altro paio di scrittori disgraziati, esuli e inclini alle digressioni: Fénelon e W. G. Sebald. Se il primo si è distinto in uno dei più geniali spin-off dell’Odissea, al secondo dobbiamo un modo del tutto nuovo di concepire la narrativa, un modo in cui i luoghi, gli oggetti e le fotografie assumono una rilevanza totemica. Difficile immaginare uno scrittore che abbia voluto interrogare il passato con l’angoscia con cui Sebald ha saputo incalzarlo. Se per Omero e per la sua folta schiera di epigoni, l’arte di divagare è al servizio della completezza della narrazione, in Sebald diventa una specie di incubo da cui è impossibile riaversi. «Come prima ho lasciato intendere», commenta Mendelsohn, Gli anelli di Saturno è il mio preferito fra i romanzi di Sebald, perché è il più emblematico del suo strano stile, uno stile caratterizzato dal frequente ricorso alla tecnica a cui allude la menzione degli anelli nel titolo.
Al pari di Omero, Sebald usa la composizione ad anello con grande efficacia. Ma a differenza delle divagazioni e delle digressioni, dei cerchi e gli anelli narrativi che troviamo in Omero, che sembrano avere lo scopo di illuminare e mettere in scena un’unità nascosta fra le cose, quelli che troviamo in Sebald paiono avere lo scopo di confondere, intrappolando i personaggi in meandri dai quali non riescono a districarsi e che sembrano non portare da nessuna parte». Quale modo migliore per rendere giustizia al senso di spaesamento prodotto nel lettore dalla cupa narrativa sebaldiana?
Normale che a un certo punto, in questa carrellata di grandi divagatori, faccia capolino lo spettro ingombrante di Marcel Proust. A suo tempo, scrivendo degli Scomparsi – il capolavoro di Mendelsohn —, avevo già avuto modo di valutare il debito filiale che lui vanta nei confronti della Recherche. Insomma, dato il tema doviziosamente trattato in Tre anelli, come eludere l’isteria digressiva del Narratore proustiano? La Recherche «suggerisce che una lunga serie di digressioni potrebbe di per sé formare il più grande anello immaginabile, un anello in grado di includere l’intera esperienza umana».
In senso strutturale, prima di Proust, solo Dante ha saputo dare una dimostrazione altrettanto plastica di come un’opera artistica acquisti forza dalla circolarità. Proust ha scelto di aprire la Recherche con l’avverbio «Longtemps» e di chiuderla con il sostantivo «Temps» allo scopo di porre due bastioni gemelli a protezione della fluviale materia narrativa che aveva in cascina. Del resto, Mendelsohn ha buon gioco a ricordarci che l’intera rievocazione proustiana muove dalle due passeggiate preferite dal Narratore bambino durante le villeggiature a Combray: quella più breve che costeggia il giardino di Swann e quella un po’ più lunga verso Guermantes. Negli anni dell’infanzia, queste due strade sembrano al Narratore antitetiche. Impiegherà una vita intera a capire che una confluisce nell’altra fino a formare una circonferenza oltre la quale gli è impossibile spingersi.
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Mauro Binazzi per la lettura
Nell’estate del 1936 la Grecia era tornata a casa. A Berlino fervevano i preparativi per l’Olimpiade, e Leni Riefenstahl aveva iniziato a girare Olympia. Le prime scene del film parlano da sole: ci sono le statue greche, di dèi, eroi e atleti, che a poco a poco si animano slanciandosi alla volta di Berlino. La cinepresa restituiva vita alle pietre, rimaste silenti per secoli. E quando la fiamma dei tedofori si accende nello stadio di Berlino in un trionfo di mani tese, l’epifania si compie. La Grecia era tornata a vivere. La Germania hitleriana era la nuova Grecia, l’erede e la guardiana della tradizione europea.
Quella fu anche l’ultima estate a Berlino per Erich Auerbach, professore di letteratura, autore di un saggio stupendo su Dante. Era stato appena licenziato perché di «razza ebraica», e si stava preparando per un viaggio in direzione opposta, via dalla Germania, in esilio. Non era il solo: in quegli anni si assistette a un esodo di scrittori, pensatori, intellettuali, prima dalla Germania e poi anche da altrove, dalla Francia ad esempio, a mano a mano che le orde hitleriane dilagavano nel continente. A pesare non erano soltanto i disagi materiali, una mancanza di prospettive sempre più cupa. A tormentare le coscienze di tutti era anche lo sgomento di chi vedeva crollare ideali e valori che avevano costituito una ragione di vita. Inevitabile che molti tra questi scrittori si sentissero chiamati a reagire, ripensando al senso stesso di questa tradizione. Erich Auerbach va a Istanbul; Theodor Adorno a Oxford e poi negli Stati Uniti, dove finiscono anche Simone Veil e Rachel Bespaloff. Del primo parla Daniel Mendelsohn nel suo nuovo libro (Tre anelli); ma anche le storie degli altri tre meritano di essere raccontate. Nella diversità dei loro caratteri e interessi, hanno qualcosa in comune. Mentre sono costretti a lasciare un mondo che mai avrebbero voluto lasciare, sentono il bisogno di ritornare all’origine di tutto, riprendendo in mano i poemi di Omero. Letti in quel periodo di così tumultuosi sconvolgimenti, le sorprese non sarebbero mancate.
L’università di Istanbul, racconta Mendelsohn, si trovava in uno splendido palazzo affacciato sulle acque del Mar di Marmara. Era stata l’abitazione di Yusuf Kamil Pascha, addirittura un gran visir dell’impero ottomano, da molti conosciuto come il traduttore di un romanzo francese che aveva goduto di grandissima fortuna in quegli anni, Le avventure di Telemaco. Le aveva scritte un arcivescovo francese del XVII secolo, François Fénelon, a sua volta costretto all’esilio proprio a causa di questo suo libro, perché sembrava contenere alcune critiche al Re Sole. In quel palazzo Auerbach scriverà il suo capolavoro, Mimesis, dedicando il primo capitolo all’Odissea. Dalla Germania alla Turchia, alla Francia, il vortice di date, luoghi, persone è solo in apparenza caotico. In realtà, tutto gira intorno allo stesso personaggio, Ulisse, l’esiliato per eccellenza, l’eroe della nostalgia.
Curiosamente, Auerbach si concentra su un episodio soltanto, quello in cui Ulisse è riconosciuto dalla sua nutrice Euriclea. Lo confronta con una storia altrettanto celebre, il sacrificio di Isacco nella Bibbia. Il risultato è impietoso: la superficialità, la leggerezza di Omero nulla può rispetto al senso di mistero e alla grandezza tragica che avvolgono il racconto biblico. Lo stile di Auerbach è quello di un professore, imparziale, distaccato. Ma il senso di un attacco tanto duro è chiaro. Il vero bersaglio è quel connubio tra Grecia antica e Germania nazista che si stava celebrando a Berlino — il nuovo mondo finalmente puro, esaltato dai corpi bellissimi di Leni Riefenstahl. Un mondo vuoto, incapace di profondità, secondo Auerbach. Reintroducendo la Bibbia nella discussione, difendendo la grandezza del mondo semita, Auerbach ricorda insomma ai suoi lettori che la tradizione europea è molto più ricca di quella che si stava raccontando. Credeva di essere tedesco e aveva scoperto di essere ebreo: riconoscendosi come ebreo ha capito cosa vuole dire essere europeo. Il prezzo da pagare era stata una lettura fin troppo polemica dei Greci, come lui stesso avrebbe riconosciuto in seguito. Poteva essere diversamente? Forse sì, avrebbero potuto rispondere due altre lettrici.
Mentre Auerbach lavora al suo libro a Istanbul, due persone camminano nel caos delle strade di Marsiglia, piene di rifugiati che sperano di trovare un passaggio sulle navi in partenza per gli Stati Uniti. Sono Simone Veil e Rachel Bespaloff. Probabilmente si sono incrociate, ma non si conoscono. Entrambe leggono l’Iliade, e scriveranno due saggi quasi identici. La scelta non è peregrina, in fondo: siamo nel pieno di una guerra tremenda, e proprio di quello l’Iliade parla. L’Iliade, come recita il titolo del saggio di Simone Weil, è il poema della forza, e la forza è ormai l’unico valore nell’Europa hitleriana. «Chi sa riconoscere che la forza, oggi come un tempo, è al centro di ogni storia umana, vi trova il più bello, il più puro degli specchi», osserva Simone Weil. Non è difficile immaginare a chi si alluda. Di nuovo, il confronto con Omero rimane un passaggio obbligato per capire il proprio tempo, per fare ordine mentre tutto sta per crollare: «Mi sono aggrappata a Omero», scrive Bespaloff a Gabriel Marcel, «nel buio è una luce che non vacilla». Ma le conclusioni dei due saggi sono opposte a quelle di Auerbach. Perché Omero è semplice solo in apparenza: è un maestro discreto, e ci vuole pazienza prima di riuscire a decifrarlo. Nell’Iliade c’è sì la forza, ma nessuna fascinazione. Al contrario, il poema rivela che la forza è un’illusione, e condanna chi le si affida. Agamennone che crede di poter piegare Achille e assiste alla rotta del suo esercito; Achille che per umiliare Agamennone causa la morte del suo più caro amico. La forza inebria chi crede di possederla, ma nessuno la possiede veramente, e tutti si perderanno. Vale per questi eroi, e vale per Hitler, forse: nel momento più buio, la voce di Omero è un canto di speranza e solidarietà, che unisce gli uomini nella sventura.
Di più, tra le righe dei due saggi emerge il grande protagonista del poema, Ettore, l’eroe della resistenza — al male, al dolore, all’infelicità: «Ettore ha subito tutto, ha perduto tutto fuorché sé stesso», scrive Bespaloff. La resistenza è prima di tutto la capacità di rimanere fedeli a sé stessi, di essere onesti, aggiunge Simone Weil: «Spesso i Greci ebbero la forza d’animo di non mentire a sé stessi; furono ricompensati per questo e raggiunsero nella vita il più alto grado di lucidità, purezza e semplicità». È semplice, Omero, ma non superficiale. Perché la «semplicità» di Omero è il risultato di una conquista faticosa da parte di chi ha imparato a riconoscere la fragilità della condizione umana. Non avevano davvero capito nulla i nazisti. Quanto a Auerbach, il problema è più complesso. Anche Simone Weil e Rachel Bespaloff concludono con un confronto tra Omero e la Bibbia. Ma mentre Auerbach esaltava le differenze, le due insistono sulle convergenze. Perché è proprio in questa capacità di tenere aperto il confronto che sta la grandezza dell’Europa, una grandezza che si deve difendere a tutti i costi. Non c’è Atene senza Gerusalemme, né Gerusalemme senza Atene.
Del resto, riecco l’Odissea, chi è veramente Ulisse, l’eroe greco per eccellenza? Il colpo decisivo arriva da oltre Oceano, da Los Angeles, dove Theodor Adorno sta scrivendo con l’amico Max Horkheimer quello che diventerà il loro capolavoro, la Dialettica dell’illuminismo. La risposta arriva alla fine di un’analisi vertiginosa delle imprese di questo eroe sempre in movimento, randagio: non sarà forse che Ulisse altro non è che la variazione di un altro mito per certi aspetti ancora più potente, quello dell’ebreo errante? Non sono forse tutti gli uomini sempre in viaggio, nomadi? Orientalizzando il mito greco, Adorno rimescola tutto, rivelando identità dove gli altri cercavano divisioni. Tutto si confonde e tutto si tiene. Il sogno, non solo nazista, di purezza, di una divisione netta tra Oriente e Occidente, tra Atene e Gerusalemme, si rivela per quello che è: l’invenzione di chi, per paura di sé stesso e degli altri, spera di potersi nascondere in patrie inesistenti, erigendo confini immaginari.
È una piccola guerra, condotta attraverso i libri, quella combattuta da questi scrittori. Ma quello che sono riusciti a ottenere non è poco. Hanno liberato il mondo antico da un abbraccio che poteva rivelarsi mortale, rimettendo tutto in movimento. Così, come in una composizione ad anello (come suggerisce appunto il titolo del libro di Mendelsohn), proprio quando sembrava arrivato a destinazione, il viaggio ricomincia. Chi sono allora i Greci?