La Lettura, 18 dicembre 2021
Intervista a Alain Connes
«Passo gran parte del tempo a riflettere sulla matematica. Di conseguenza la musica e, in particolare, il pianoforte occupano uno spazio limitato nelle mie giornate. Ma, pur non considerandomi un musicista, ho cercato di illustrare artisticamente concetti matematici ancora sconosciuti al grande pubblico»: Alain Connes, professore emerito al Collège de France e Medaglia Fields nel 1982, è riconosciuto a livello interazionale come uno dei più importanti matematici viventi.
Proprio sulla relazione tra musica e matematica Connes ha recentemente parlato a Como, ospite della scuola «Tra scienza e letteratura» organizzata dal fisico Ugo Moschella. «La Lettura» lo incontra a Villa Grumello, dove nel passato sono stati ospitati grandi scienziati e umanisti, tra i quali Alessandro Volta e Vincenzo Monti. Lo studioso francese ci parla dei suoi esperimenti per tradurre i numeri primi in composizioni musicali.
Professor Connes, in cosa consiste questa sua rappresentazione artistica di concetti legati alla matematica e alla musica?
«La teoria dei “motivi” di Alexander Grothendieck è un’area di ricerca della matematica che tenta di unificare gli aspetti combinatori, topologici e aritmetici della geometria algebrica, di coglierne cioè il “motivo” che li accomuna, secondo l’analogia musicale invocata dallo stesso Grothendieck che ne inventò il nome. Stiamo parlando del più grande genio matematico del Novecento, che nel 1990 si ritirò come eremita in un piccolo borgo dei Pirenei. I “motivi”, però, restano un concetto sconosciuto oggi al grande pubblico ma anche ai matematici e ai fisici non direttamente coinvolti in questa area di ricerca. Il contenuto musicale di questa teoria va oltre l’analogia. I “motivi” contengono un proprio ritmo, anche se non una melodia: con essi si può fabbricare un’infinità di variazioni ritmiche...».
Con quale risultato, concretamente?
«Potremmo scrivere un programma informatico con molti “compositori”, in cui ognuno di loro elabora una variazione ritmica ben strutturata. Ascoltando le differenti composizioni potremmo risalire a colui che l’ha creata. Il compositore di cui sto parlando, e che associa un ritmo diverso a ogni numero primo, è quello che in geometria algebrica si chiama “curva iperellittica”. La matematica gioca qui un ruolo nella creazione di strutture musicali relativamente al ritmo. C’è inoltre una sorprendente relazione con le idee del compositore francese Olivier Messiaen (1908-1992): i suoi ritmi non retrogradabili coincidono con l’“equazione funzionale” della matematica...».
Dal suo esperimento, in sintesi, cosa è venuto fuori?
«Ho composto un pezzo per ogni numero primo proprio per illustrare questi concetti matematici, molto elaborati e strutturati, con una creazione. E qui ho avuto modo di verificare come nella creazione matematica e in quella artistica sia importante anche l’“estasi”, il “rapimento”, in definitiva il ruolo dell’inconscio. Il matematico Jacques Hadamard (1865-1963) aveva già mostrato come l’introspezione abbia un notevole ruolo nella descrizione dei processi matematici: al lavoro cosciente e razionale di superficie si aggiunge anche un lavoro che agisce nel profondo. E questo lavoro inconscio non è prodotto solo dall’emisfero sinistro del cervello: entra in gioco anche l’emisfero destro, cioè quell’area connessa alla sensibilità, all’emotività. Questa componente emotiva ha un bisogno di espressione che nella matematica pura viene, in genere, compressa. E quindi la musica è per me un modo di ristabilire l’equilibrio. Ciò che sostengo può sembrare un po’ naif. Ma detto in altri termini: è come se dentro di me ci fosse una pila che si ricarica progressivamente; e quando è sufficientemente carica, avverto un bisogno assoluto di sedermi al pianoforte e improvvisare qualcosa...».
Molti scienziati hanno avuto una passione per la musica. Leonardo, Galileo Galilei, Albert Einstein... Fabiola Gianotti, direttrice del Cern di Ginevra, più volte ha ricordato i suoi dieci anni di conservatorio. Così come alcuni grandi musicisti, per esempio Philip Glass o Pierre Boulez, avevano conseguito un titolo di studi in matematica...
«In effetti il linguaggio matematico probabilmente ha una relazione con il linguaggio musicale molto più profonda che con altre attività artistiche, ad esempio la pittura. La pittura può essere percepita istantaneamente e globalmente, mentre la musica ha bisogno di una dimensione temporale. Mi fa pensare un po’ alla distinzione tra algebra e geometria. L’algebra ha a che fare con il trascorrere del tempo: quando si fanno calcoli si è iscritti in una dimensione temporale e ciò è perfettamente in accordo con la musica; invece le nozioni geometriche sono come istantanee e non iscritte in una dimensione temporale. Ma, ritornando al tema dell’inconscio, penso che il linguaggio musicale ci aiuti a esplorare il territorio sconosciuto delle pulsioni, di cui si occupa in particolare la psicoanalisi».
A proposito di psicoanalisi, lei sta scrivendo un libro a quattro mani con lo psichiatra lacaniano Patrick Gauthier-Lafaye. Come si coniuga la matematica con la psicoanalisi?
«Il libro di Lafaye L’esperienza dell’inconscio è riuscito a vincere le mie antiche resistenze su Lacan. E così discutendo dei suoi casi clinici mi sono reso conto dell’adeguatezza di certe nozioni matematiche o fisiche. Ora vorremmo descrivere come alcuni concetti matematici possano affinare la ricerca psicoanalitica e filosofica. Penso, in particolare, ai topoi di Grothendieck e alla loro relazione con la logica intuizionista: una logica in cui non ci sono solo il vero e il falso, ma diversi valori di verità che permettono di avere un punto di vista molto più raffinato di ciò che è vero e di ciò che è falso. Non è facile però comprendere queste nozioni e utilizzarle in maniera idonea per chi non è matematico: ed è per questo che lo psicoanalista o il filosofo non potranno procedere da soli».
Come sono cambiate le basi della matematica moderna negli ultimi cinquant’anni?
«La base della matematica moderna non è più la teoria degli insiemi ma quella delle categorie. Si tratta di concetti nuovi che permettono di affinare il modo di pensare anche in situazioni ordinarie ma che non appartengono ancora alla conoscenza condivisa. In realtà non sono assimilati neppure dalla fisica. L’articolo che stiamo scrivendo riguarda, grosso modo, le due grandi alea che investano la conoscenza moderna: quella della fisica quantistica e quella dei topoi di Grothendieck e della logica intuizionista».
Quali sono le grandi sfide della matematica contemporanea?
«La matematica è una fabbrica di concetti. Concetti non semplici, ma elaborati o molto elaborati. Ad esempio, quattro secoli fa la fisica e la matematica hanno introdotto il concetto di “energia”. Ora ne parlano tutti. Adesso il concetto di funzione, di grafico, fa parte della conoscenza condivisa. Guardando la curva del contagio molti sanno capire se l’epidemia accelera o rallenta. Una sfida importante è quella di far passare nell’uso comune concetti matematici più recenti, più elaborati, più complessi. Una questione a parte investe i grandi problemi irrisolti, che costituiscono una sfida tra matematici: come l’ipotesi di Riemann».
Quali sono invece i pericoli che minacciano la matematica moderna?
«La perdita di senso. Il credere, come spiegavo prima, che la matematica si riduca a dimostrazioni che è possibile fare tramite un computer. Adesso ci sono prove automatiche: il computer può dimostrare questo o quell’enunciato e può addirittura creare un enunciato. Ma il computer, in realtà, è rigorosamente incapace, e credo che lo sarà ancora per un tempo infinito, di creare un concetto. È una differenza fondamentale: tra ciò che è meccanico, e dunque realizzabile tramite un computer, e il pensiero umano capace di distillare un concetto attraverso decine di esempi. Un processo meraviglioso, che una macchina non può fare».
Una differenza fondamentale tra imitare meccanicamente e creare...
«Una macchina sarà capace di verificare una dimostrazione e calcolare moltissimi esempi. E migliorerà sempre più la sua capacità imitativa. Ma non sarà in grado di dire: Ecco! Ho capito! Ecco il concetto! Come quando Grothendieck ha pensato il concetto di topos o Werner Heisenberg quello di meccanica delle matrici».
Si può parlare di una intelligenza artificiale non troppo «intelligente»?
«Vorrei essere chiaro: la capacità di riuscire a portare alla luce un concetto a partire da una miriade di esempi differenti, o capire che c’è qualcosa che si può enunciare e in seguito formalizzare, appartiene solo all’essere umano. La cosiddetta intelligenza artificiale si fonda soprattutto sull’imitazione: capace di automigliorarsi, ma resta pur sempre un’imitazione. Essa permette, per esempio, di fare calcoli per i nuclei atomici senza utilizzare l’equazione di Schrödinger che governa la meccanica quantistica. Imita molto bene i risultati di questa equazione, ma senza capirla».
Come funziona veramente una rete neuronale?
«Si avvia un processo con dati in parte aleatori, su strati successivi, correggendoli con i dati osservati e i risultati che si vogliono ottenere. Per fare questo servono computer estremamente potenti. Ad esempio nel gioco del Go, adesso la macchina arriva a battere il miglior giocatore del mondo. È come se la macchina avesse giocato per 300 anni, accumulando esperienza. Ma questo non mi convince. La macchina non può, come l’uomo, creare concetti e progredire nella comprensione. Ciò che mi fa paura nell’evoluzione della società contemporanea è la progressiva scomparsa del bisogno di capire. Si accetta che si possa “fare” senza “capire”, come se capire non fosse più necessario!».
Purtroppo anche il mondo dell’educazione è minacciato da questa tendenza: si pensa che il «saper fare» non presupponga un «sapere» che precede il «fare»...
«Io distinguo tra fare senza comprendere, quel che fa la cosiddetta intelligenza artificiale, e il comprendere senza dovere necessariamente fare. I calcoli che Évariste Galois, il grande genio morto ventenne in un duello nel 1832, avrebbe dovuto fare erano alla sua epoca impossibili. Ora si possono fare in esempi semplici con il computer e generano numeri colossali. Ma lui aveva capito che non era necessario farli per dimostrare ciò che voleva. E cosi saltò a piè pari sui calcoli. Ciò che mi fa paura è che ora potremmo cadere nella trappola di abbrutirci soltanto nei calcoli senza mai trovare quell’idea miracolosa. È un balzo all’indietro, un arretramento fenomenale. Così facendo sembriamo dei bambini dell’asilo rispetto a Galois».