La Lettura, 18 dicembre 2021
Il risveglio di Giulia
«Mi chiamo Giulia, avevo un coniglio» dice Giulia, 33 anni. «Mi chiamo Giulia, ero una bambina timida».
Prima del coma Giulia era timida, amava gli animali, leggeva Harry Potter. Ha avuto due fidanzati, uno alle medie, Simone, l’altro al liceo, Vito, ribelle quanto lei che le regala un portafoglio a forma di bara. Ha fatto la comunione con il vestito a fiorellini, la cresima in divisa militare – la fase punk, dice.
Sempre prima del coma c’è stata l’estate a Marina di Bibbona, mare di Livorno, insieme a Ginevra, l’amica del cuore. La spiaggia, i ragazzi. Il luna park, perché se esiste un’immagine nitida di quel tempo sono le luci del luna park dove i genitori non volevano che andassero, e loro andavano di nascosto, truccandosi per strada, sciogliendo i capelli. Salivano sul tagadà e sulle sedie volanti, «era bellissimo». Altri ricordi: il cane Kira, i capelli lunghi, «avevo i capelli lunghissimi e biondi».
Si addormenta bionda, si risveglia mora. Di fianco al letto la mamma. La mamma invecchiata. Del malore Giulia non ha memoria, di quel giorno in autobus tornando da scuola, del momento in cui è caduta a terra (rottura di una malformazione congenita artero-venosa del cervello – Mav). Ospedale, operazione. «Entra in sala operatoria alle sette di sera, esce alle otto del mattino dopo» racconta mamma Maura. «Dalla sala operatoria arriva una barella con sopra un uomo gonfio, pieno di tubi. Penso: dopo di lui arriverà mia figlia. Me lo devono dire i medici che quell’uomo gonfio è mia figlia».
A Giulia viene asportata parte della teca cranica.
Questa è la storia di Giulia, andata in coma a 15 anni e risvegliatasi a 22.
È la storia dell’ostinazione di una madre contro medici che vorrebbero quella figlia spacciata. La storia di una lunga peregrinazione tra ospedali e strutture inadeguate prima di arrivare qui. Qui è il Centro Cardinal Ferrari di Fontanellato (Parma), luogo in cui mamma Maura è ascoltata e dove anche i medici capiscono che Giulia sta uscendo dal coma.
Al momento venti pazienti in stato vegetativo, altri venti in stato di minima coscienza su sessanta (trauma cranico, ictus, post anossici da arresto cardiaco), il Cardinal Ferrari è uno dei più importanti centri riabilitativi d’Italia per gravi cerebrolesioni acquisite e congenite. È detto da molti «la casa dei risvegli», perché qui i pazienti in coma si risvegliano. «Non è esatto – precisa il primario, Antonio De Tanti – non esiste un modo per risvegliare dal coma ma, con strumenti adeguati e attenzione, è possibile cogliere i segnali d’uscita».
Un dito, una mano – come per Giulia. «Un giorno mi ha stretto il braccio, e io ho detto: se capisci, rifallo. Lo ha rifatto» racconta la mamma.
Succedeva nella Residenza sanitaria assistenziale (Rsa), precedente al Cardinal Ferrari. I pazienti in stato vegetativo sono destinati alle strutture di lunga degenza prive di mezzi – troppo costosi – per accorgersi dei risvegli. Il pericolo che ha corso Giulia. «Stanza singola, isolamento» riferisce la mamma che però si è ribellata: metteva la musica (Max Pezzali, Jovanotti), cantava, ha introdotto di nascosto un coniglio nano nella struttura e l’ha accoccolato sul petto di Giulia. «Respiravano insieme. Come se si tenessero in vita l’uno con l’altra».
Purtroppo gli infermieri della Rsa scoprono il coniglio e obbligano mamma Maura a portarlo via. Giulia dorme. Ogni mattina Maura la veste, e con la bascula (la carrozzina basculare) la porta nella sala comune, accolta dagli anziani malati di Alzheimer per i quali ogni mattina Giulia è la nuova arrivata. Lasciano bastoni e girelli per spingere la sua carrozzina. «È l’unico aspetto bello di quel posto – ancora mamma Maura – perché Giulia è cresciuta con i nonni, ha passato gran parte del tempo con nonni e zii molto avanti con l’età, quella situazione mi sembrava una specie di ritorno a casa».
Ecco come Giulia ha rischiato di sparire, finire. Considerata dormiente quando si stava risvegliando. Spesso i risvegli sono invisibili. Serve saperli riconoscere. Con tecniche innovative come la pompa di infusione intratecale contro gli spasmi – in caso di spasticità; o la tossina botulinica per immobilizzare i muscoli. La scala clinica, gli stimoli acustici e visivi con verifica a cui è sottoposta... Giulia risponde alla sequenza di parole interrotte dalla voce della mamma che la chiama per nome. L’elettroencefalogramma registra una variazione, e quella variazione è la potenzialità di consapevolezza. Pazienti che non si muovono, non parlano, pazienti considerati persi (Giulia dorme), che reagiscono alla voce della mamma, che poi, a qualsiasi età, è l’unica persona che cercano riprendendo coscienza. E se è morta, loro l’hanno dimenticato. Il dramma allora è darne notizia, nonostante sia un evento precedente al coma, e si tratti di un lutto già elaborato. Ma questo è un tempo diverso in cui le mamme dei risvegliati muoiono due volte, e spesso continuano a morire ogni giorno.
Prima parola di Giulia: mamma.
Operata venti volte alla testa, Giulia adesso è sulla sedia a rotelle. Non è autonoma, ha perso l’uso del braccio. Fatica a leggere e a gestire le attività quotidiane per deficit delle capacità visive, uditive, mnesiche – ha perso la memoria breve.
«Quanti anni ho oggi?» chiede alla mamma. Oppure: «Quando viene papà?» – e il padre è appena andato via.
Poi c’è chi esce dal coma e non trova nessuno, come Zhu, 30 anni, cinese, Stp (straniero temporaneamente presente, ovvero irregolare con iscrizione al Servizio Sanitario per sei mesi rinnovabili). Ebbene Zhu, portato al Cardinal Ferrari dalla famiglia a seguito di un’ischemia, dieci mesi di coma, si risveglia solo. La polizia va a cercare i familiari presso il domicilio: fuggiti. Nella comunità cinese tutti negano di conoscerlo. Zhu non esiste e nessuno lo vuole – il console cinese, contattato, suggerisce di tenerlo nella struttura.
Nel Centro impara l’italiano. Fa amicizia, litiga, tira oggetti addosso a Benson e agli altri compagni di stanza – «si è risvegliato indisciplinato». Indisciplinato ma affettuoso, con il desiderio di comunicare. In cambio di una preghiera imparata a memoria, la centralinista gli offre il caffè alla macchinetta, e così mattina dopo mattina, preghiera dopo preghiera, Zhu si converte. Da musulmano diventa cattolico, con il vescovo di Parma che lo viene a battezzare. Nuovo nome: Mosè. Dopo otto anni al Cardinal Ferrari, Mosè viene accolto nella Casa della Carità di Parma. Oggi comunica con il computer, cammina con il deambulatore. Mangia, si veste, si lava in parziale autonomia. Manda ai medici foto di lui a spasso per la città circondato dalle suore. Quando era al Centro non voleva mai uscire per paura di essere abbandonato.
Visto il successo con Mosè le suore vorrebbero Benson – lo stesso Zhu lo reclama malgrado i trascorsi turbolenti. Senegalese, 25 anni, Stp anche lui, Benson va in coma a seguito di un infortunio sul lavoro (precipitato da un’impalcatura). Anche per lui famiglia sparita: la moglie e la figlia di un anno – la moglie è riuscita a fargli firmare la rinuncia alla patria potestà.
Benson come Zhu rimane al Cardinal Ferrari: questo è il settimo anno. Medici e infermieri lo vestono con i loro abiti; un infermiere dice: «Certe volte, con la coda dell’occhio, mi sembra di vedere me stesso».
A differenza di Zhu, Benson non si è convertito, né ha desiderio. Poco importa: le suore lo vogliono comunque. Lode alle suore perché farsi carico di pazienti usciti dal coma non è semplice. Per consentire loro una semi autonomia ci vogliono strumenti costosi, per quanto meno costosi rispetto al passato grazie ad Apple e Amazon, impegnate a soddisfare le richieste di una società sempre più pigra che ambisce a muoversi il meno possibile. Allora l’assistente virtuale Alexa apre la porta, spegne e accende la luce. Oggetti in verità nati per uso bellico, inventati dagli israeliani: gli occhiali per ipovedenti che nominano ciò che vedono, o i robot in grado di trasportare zaini di 200 chili, la cui evoluzione per disabili è il robot umanoide Nao (della francese Aldebaran Robotics), 58 centimetri, altezza bambino. Tra le varie abilità: riconoscere volti e voci, parlare, rispondere a domande. Camminare, trasportare oggetti – se Nao cade, Nao si rialza. E rialzarsi è metaforicamente possibile per tutti: purché ci sia desiderio – torna centrale il desiderio.
Giulia desidera innamorarsi di nuovo dopo la storia con Fabrizio, nata e finita al Centro. «Sono stati fidanzati sei mesi, a un certo punto volevano andare oltre il bacio» racconta la mamma. Giulia però ha paura di sbagliare.
«Come si fa?» chiede alla mamma. «Rimani con noi» arriva a implorare.
Con il coma alcuni hanno dimenticato come si fa, altri non hanno fatto in tempo a saperlo. Sono abile e desiderAbile recita la scritta sulla maglietta dell’associazione «Vieni al punto» creata da Serena Grasso, 30 anni. Paralisi cerebrale infantile alla nascita, Serena, laureata in Scienze politiche, si occupa di sessualità e disabilità. Lei che a vent’anni s’innamora e, al momento del rapporto, indugia: «Mi chiedevo: ci riuscirò? il timore di non essere capace...». Da qui l’idea dell’associazione e l’invito della dottoressa Donatella Saviola a tenere un gruppo di educazione alla sessualità al Cardinal Ferrari. Eccoli dunque, radunati nell’atrio, pazienti e operatori. Eccoli a cantare, poiché dai testi delle canzoni parte la discussione. I pazienti cantano, e chi non può, muove la testa. Ed è davvero come se stessero cantando tutti insieme, ciascuno a modo proprio.
Canzone preferita: Albachiara.
Domande: come farlo, posizioni.
E anche: mi vergogno, riuscirò mai a trovare un amore?
Cos’è l’amore?
La risposta è in questo luogo. Nell’esercizio di uno sguardo globale sui pazienti, senza escluderne i desideri (proprio al Cardinal Ferrari stanno studiando prototipi di sex toys per disabili. Così il vibratore femminile con l’impugnatore ergonomico e prolunga modulabile. O quello esterno con calamita azionabile attraverso app. E quello maschile con maniglie). Uno sguardo che va insegnato, diffuso, perché è lo sguardo degli altri uno dei maggiori ostacoli – e tutti i ritorni a casa sono dolorosi: con familiari che non vogliono vedere, altri che vedono, altri che considerano i malati di nuovo bambini. Mamma e papà di Roberto che allontanano il figlio dalla moglie per riprenderlo con loro. «Il coccodrillo come fa» canta il padre ottantenne al figlio sessantenne. Quel figlio, a suo vedere, riprecipitato nell’infanzia. Sulla sedia a rotelle, afasico. Prendergli la mano, stringergliela forte: «Il coccodrillo come fa». O quel padre che alla confessione della figlia disabile cinquantenne di essere stata baciata da un altro paziente disabile, quel padre si dispera: «Se è rimasta incinta?».
Il mondo rimpicciolisce per tutti, familiari e amici: il tentativo di fermare nel tempo almeno qualcuno, qualcosa, mentre intorno la vita procede. Lo sforzo di rendere meno straniante il ritorno. Quel ritorno in cui Giulia non riconosce i cugini lasciati bambini e ritrovati ragazzi: «Non sono loro»; quel ritorno in cui non crede che Michael Jackson sia morto, ma tuttavia continua ad amare gli 883, «il mio preferito è quello che salta» (nonostante gli 883 non esistano dal 2002). Quel ritorno abitato dalla paura: «Mamma, il prossimo anno fai sessant’anni, sono tantissimi». Impensabile una vita senza la mamma, troppi progetti da realizzare insieme: vacanze, viaggi. A proposito di viaggi: Giulia vorrebbe andare nel Mar Rosso per vedere dal vivo il pesce pagliaccio scoperto su internet. Certo, al Cardinal Ferrari di animali ce ne sono: cavalli, cani... coniglio. Un coniglio bianco che si litigano tra degenti. E se Giulia avesse memoria degli anni di coma, saprebbe che quello è il suo terzo coniglio, saprebbe che il secondo ha addirittura respirato insieme a lei. Ma non ne ha memoria. Eppure: c’è certezza che in questi malati i ricordi spariscano completamente? Che fine fanno le persone incontrate, i luoghi visitati? E se rimanessero da qualche parte per riemergere in un’unica persona, in un unico luogo?
«Mi chiamo Giulia, avevo un coniglio», e chissà che quel coniglio non siano tutti i conigli della sua vita.