Robinson, 18 dicembre 2021
Intervista a Chiara Frugoni
Arsenio e Chiara Frugoni sono i protagonisti di questa piccola storia familiare che solo oggi, a distanza di cinquant’anni dalla morte del primo, sembra potersi dichiarare conclusa: «Mio padre» dice Chiara «è stato a suo modo straordinario. Un essere presente ma inviolabile quando era in vita; un fantasma ingombrante dopo la sua fine. Morì infatti in un incidente automobilistico nel 1970. Con lui morì mio fratello Giovanni. L’unica a salvarsi fu mia madre che riportò gravi ferite e dovette sopportare una lunga degenza. Quel giorno non partecipai alla gita. Mi chiedo se ho vissuto con un senso di colpa non essere stata lì anch’io in quell’auto. Forse l’ho pensato. Forse ho messo in moto aspetti della mia psiche che non credevo si sarebbero attivati. Ma oggi tutto questo è alle spalle. Mi sento placata, come dopo una tempesta. Anche le cose che scrivo mi appaiono più chiare, proiettate sul nostro oggi. Prendi questo libro che ho scritto sulle donne nel Medioevo, nonostante la distanza che ci separa da quel mondo, continua a sopravvivere una cultura misogina preoccupante».
Il tuo libro “Donne medievali” va un po’ all’origine di quel fenomeno sociale che condanna la donna a una perpetua inferiorità morale, economica e culturale.
«Parlo di donne per lo più invisibili che tra il quinto secolo e gli albori del quindicesimo furono oggetto di accanimento mentale e fisico da parte del potere maschile e ridotte a una condizione di subalternità.
Donne per lo più vissute nell’ombra: offese, abusate, sottomesse. Poste ai margini e condannate pregiudizialmente perché incarnavano il peccato».
Il prototipo, tu scrivi, fu Eva.
«Eva, la prima donna, è il modello di tutti i nefasti stereotipi che si addenseranno sul mondo femminile.
L’abate Goffredo di Vendôme, in una lettera del 1095 diretta ai suoi monaci, li invita a disprezzare il mondo e soprattutto il corpo della donna. Eva, mai nominata direttamente, è definita la causa rovinosa del genere umano. Adamo di Eynsham, uomo di chiesa, affetto da misoginia cita l’Ecclesiaste: “Ogni malizia è nulla a confronto di una malizia di donna”. Ma il primo grande ideologo a imporre una visione negativa del femminile è san Paolo: “La donna impari in silenzio, in piena sottomissione”, scrive nella Prima lettera a Timoteo».
La Chiesa è dunque il motore principale di questa visione misogina.
«Lo è al punto da imporre un’operazione culturale spregiudicata: da un lato vieta il matrimonio dei preti, dall’altro impone il matrimonio religioso».
Una strategia che porta a quali conseguenze?
«La militarizzazione della Chiesa. Gregorio VII, che muore nel 1085, fa in tempo a proibire ai preti di sposarsi e così accende la miccia della misoginia. Da quel momento ogni predica e ogni immagine condannano la donna come veicolo del peccato. Grande peccatrice è Maddalena; mentre Maria, disincarnata e ridotta a madre del Cristo, in nulla può proporsi a modello di vita reale. Quanto al matrimonio religioso, scalzerà tra l’XI e il XII secolo quello laico, trasformandosi da semplice contratto a sacramento».
Il matrimonio è in buona sostanza ammesso solo per la procreazione?
«È la conclusione più ovvia. Qualunque altra finalità viene bandita e condannata. Ancora una volta è san Paolo a porre le basi del divieto e a depurare la relazione matrimoniale dal desiderio carnale».
L’accanimento della Chiesa e dei suoi rappresentanti verso la donna non coinvolge tuttavia Gesù.
«Anzi, il suo apostolato è rivolto anche alle donne. I Vangeli testimoniano abbondantemente della presenza femminile. È una donna ad assistere alla resurrezione del Cristo. In un altro racconto – nel Vangelo di Giovanni – un Cristo stanco ed assetato chiede da bere a una donna che è una samaritana. A lei che ha avuto cinque mariti e convive con un uomo che non è il suo sposo, Gesù rivela di essere il Messia. E quando giungono i discepoli, si meravigliano che il Maestro parli a una donna. Molte di queste scene sono state illustrate con delle miniature. Ancora nel XII secolo le donne sono una parte significativa delle immagini».
Tutto libro è un continuo intreccio tra testo e immagini. Dove e quando nasce in te questo interesse per l’iconologia?
«È stato mio padre, Arsenio Frugoni, a trasmettermi il gusto e la passione per le immagini. Fin da piccola amava portarmi in lambretta per vedere una serie di affreschi nelle chiese o negli oratori disseminati nella campagna bergamasca e bresciana. Oppure nei musei, affascinando me e mio fratello con le sue lezioni improvvisate».
Arsenio Frugoni è stato tra i grandi storici del Medioevo. Ma ha avuto anche una certa attrazione per la storia dell’arte. Da poco è uscito un suo libro per la Morcelliana – anzi un doppio libro – dedicato alla storia rispettivamente della pittura e dell’architettura.
È un aspetto di tuo padre di cui si sa pochissimo.
«È vero se ne sa poco. Sono trentuno conferenze che lui tenne sul finire degli anni Quaranta, ciascuna corredata da varie decine di immagini, atte a illustrare il testo. La domanda che mi sono posta, quando ho ritrovato questo materiale dimenticato, è come avesse fatto a comporlo. Presumibilmente lavorò a queste lezioni tra il 1943 e il 1946. Anni complicatissimi per chiunque intendesse intraprendere un’opera del genere. Tutti i quadri di cui parla, molti dei quali, provenienti da collezioni private, lui dove li aveva visti?».
Non ci sono tracce?
«Nulla. Io so che quando era un giovane professore di liceo scrisse a Giorgio Morandi annunciandogli che si stava occupando della sua arte. E siccome lo stipendio di professore non gli consentiva acquisti di immagini utili al suo lavoro, gli chiese se poteva inviargli qualche sua riproduzione. Morandi gli spedì un disegno e dopo qualche settimana, visto che non rispondeva, gli chiese se almeno gli era piaciuto».
E suo padre?
«Gli rispose che non era quello che si aspettava, certo importante, prezioso, ma dissonante rispetto all’idea che lui aveva della sua arte. Era un uomo molto franco, con la particolarità di nutrire un orrore francescano per la roba».
Nel senso?
«Non conservava nulla. Finito un lavoro dava via tutto quello che era servito alla preparazione. Appunti, lettere, immagini. Praticamente cancellava ogni cosa».
Un atteggiamento singolare.
«Contribuiva ad alimentare il mistero che avvolse parte della sua vita».
A questo proposito c’è la ricostruzione molto meticolosa che lo storico Gianni Sofri ha fatto del
biennio 1943-44 della vita di suo padre. Periodo sul quale si sono addensate delle ombre.
«Ti riferisci all’anno in cui mio padre fu a Gargnano, nei pressi di Salò».
Esattamente. E non a caso Sofri ha intitolato il suo libro “L’anno mancante”, ossia l’anno su cui Arsenio Frugoni non si è mai espresso. Un vuoto nella sua vita o magari un rimosso. Gargnano era allora, come spiega Sofri, uno dei luoghi più importanti della Repubblica sociale italiana. Fascisti e nazisti vi si erano attestati nel tentativo disperato di organizzare una controffensiva efficace, lì viveva Mussolini, protetto dall’alleato tedesco, in una villa, insieme a parte della famiglia. Ma tuo padre che cosa ci faceva in quel posto?
«I pochi testimoni che nel tempo ho sentito e quelli che ha consultato Sofri concordano nel dire che era lì come interprete. Conosceva bene il tedesco, lingua che affinò nell’anno e mezzo in cui fu a Vienna a insegnare italiano presso l’istituto italiano di cultura. Vi restò fino all’estate del 1943. In seguito tornò a Solto, non distante da Gargnano, nella casa dei nonni materni dove di solito passavamo l’estate. Il perché accettò di fare l’interprete si spiega con le nostre precarie condizioni economiche.
Ma questa è solo parte della spiegazione».
Come la completeresti?
«Quella dove vivevamo era una zona frequentata dai partigiani. A volte venivano da noi a mangiare e non ignoravano che mio padre due volte a settimana si recava a Gargnano per dare lezioni di italiano a un ufficiale tedesco».
Chi era questo ufficiale?
«Si chiamava Otto Joos ed è probabile che si siano conosciuti nel periodo in cui eravamo a Vienna. La cosa interessante è che l’allora capitano della Wermacht mi scrisse, subito dopo la morte di mio padre, raccontandomi alcuni inediti episodi. Mi disse che Frugoni aveva salvato diversi antifascisti che erano stati arrestati. Aggiunse anche che sospettava che facesse parte delle organizzazioni partigiane».
Da cosa lo capì?
«Da alcuni particolari, ma uno soprattutto che risale a dopo la guerra. Quando il capitano passando da Pisa incontrò, non so quanto casualmente, mio padre.
Frugoni a un certo punto gli rivelò di aver comandato una brigata partigiana nella zona di Como e che se in quel ruolo lo avesse incontrato lo avrebbe fatto arrestare».
Quindi suo padre in realtà era un membro del Cln?
«Negli elenchi della Resistenza non c’è traccia. È probabile che egli abbia collaborato con i servizi segreti inglesi e con quella parte della resistenza cattolica che ebbe nel futuro Paolo VI uno degli artefici principali.
Molte risposte credo si trovino negli archivi, ancora secretati, di Montini. Oltretutto, fu Montini ad agevolare l’ingresso di Arsenio Frugoni alla Normale».
Perché tuo padre non ha mai reso nota questa storia?
«La riservatezza era parte del suo carattere. Ricordo che provava un fastidio enorme davanti a coloro che si vantavano di aver fatto la Resistenza, che se ne gloriavano quando in realtà spesso non era vero niente».
Questo lo capisco. In molti salirono sul nuovo carro del vincitore. Ma quello che non mi è chiaro è il riserbo delle persone che lui salvò e che non hanno mai parlato a suo favore. Restando per lo più reticenti.
«Forse non era chiaro neppure a loro il ruolo che stava svolgendo. Non lo affermo con certezza. Ma la ricomposizione del puzzle va in questa direzione.
A distanza di così tanti anni non vi sarebbe niente di veramente disdicevole se neppure trentenne avesse aderito agli ideali della Repubblica Sociale. In molti, da Dario Fo a Giorgio Albertazzi, ci passarono.
Nulla, dico nulla, in lui né prima né dopo ha mai corrisposto all’ideale della “bella morte”. E tutti coloro che allora lo frequentarono erano perfettamente consci di quanto il suo sentire fosse distante dalle simpatie per il fascismo, da quella retorica patriottarda di onore e morte».
Trovo straordinario questo rapporto con tuo padre.
«In che senso lo dici?».
Nel senso che non ti sei tirata indietro, non hai aggirato questa figura ingombrante. Un amore filiale accompagnato dalla domanda “chi era mio padre?”.
«Credo di esserne stata perdutamente innamorata e al tempo stesso schiacciata dal peso ingombrante, confusa nella sua ombra. L’indagine su di lui nasce da questa asimmetria. A volte ritorno a certe pagine che ha dedicato al mestiere di storico. E sento vibrare la passione e l’impegno civile. Oggi mi sento pacificata con la sua immagine e la mia memoria. Quando morì nel 1970 avevo trent’anni. Avevo un figlio ed ero una semplice bibliotecaria. Come se mi fossi tenuta al margine dalla vita universitaria. La sua scomparsa ha contribuito ad aprirmi alla ricerca, a farmi ripercorrere le sue tracce di studioso, e al tempo stesso donarmi la certezza che quello che stavo facendo era pur sempre qualcosa di mio. Ero la “donna medievale” che aveva guadagnato autonomia, forza, credibilità».