Robinson, 18 dicembre 2021
Il processo del Bataclan raccontato da Emmanuel Carrère
A1. In custodia cautelare lle 21: 57, mentre i brandelli di Samy Amimour, polverizzato dalla sua cintura esplosiva, piovevano come coriandoli sulla sala del Bataclan, Azdyne Amimour, suo padre, guardava sul primo canale la partita di calcio Francia-Germania, che procedeva come se nulla fosse allo Stade de France. Per evitare il panico, nessun annuncio aveva interrotto la trasmissione: i telespettatori che la seguivano sono stati gli ultimi francesi a essere informati del massacro che pure era cominciato, mezz’ora prima, proprio alle porte dello stadio. Azdyne ricorda una detonazione a inizio secondo tempo, una curiosa esitazione di Patrice Evra sul campo, poi più nulla di speciale: solo alla fine del match, vinto dalla nazionale francese, venne a sapere che cosa era successo. Telefonò a sua moglie per accertarsi che non fosse successo nulla alla loro figlia più piccola, che quella sera usciva con delle amiche. Dice che non sospettò neanche per un secondo che Samy potesse essere coinvolto negli attentati, per la ragione paradossale che era partito per fare il jihad in Siria: se era in Siria, non era a Parigi. Azdyne dunque non si preoccupò particolarmente fino a che, nella notte fra il 15 e il 16, una decina di uomini del Raid, le forze speciali di pronto intervento, forzarono la porta di ingresso e ammanettarono lui, la moglie e la figlia e li portarono nella sede della Dgsi, i servizi interni. Lì li interrogarono per quattro giorni, senza che lui riuscisse a capire perché, racconta. Fu solo alla fine della custodia cautelare che il procuratore della Repubblica lo informò innanzitutto che suo figlio era stato ucciso al Bataclan e poi che aveva ucciso a sua volta, a sangue freddo e addirittura con un certo buonumore, decine e decine di persone.2. Verità e menzogneNaître coupable, naître victime( nascere colpevole, nascere vittima) è il titolo di un libro di Peter Sichrovsky, pubblicato nel 1991 (in Italia ne è uscita una versione parziale per Longanesi dal titolo Nati colpevoli): una raccolta di interviste incrociate di figli di deportati e figli di nazisti. Il peso che grava su di loro è lo stesso? Le loro sofferenze sono ugualmente degne di compassione? Per rispondere di sì a queste domande bisogna probabilmente fare uno sforzo, ma è uno sforzo che la morale e la ragione esigono: i figli non sono responsabili dei crimini dei padri. In senso inverso, questa tesi è un po’ più incerta: se un bambino diventa un assassino, viene naturale sospettare che la sua famiglia c’entri qualcosa. Per questo ad Azdyne Amimour, quando è venuto a deporre venerdì scorso al processo, non è stato chiesto soltanto di fornire delle spiegazioni, ma anche di rendere conto, in qualche modo. Vestito con una vecchia giacca mimetica, è un uomo di 74 anni, affaticato, evasivo, ma anche «simpatico e rilassato» (così si descrive lui stesso, e questa cosa non ha fatto una buona impressione). Tra Francia e Algeria ha fatto un po’ tutti i mestieri, cinema, moda, piccolo commercio, con alti e bassi, belle macchine e bancarotte. Non è un povero, in ogni caso, e neanche un musulmano rigorista: va raramente in moschea, non ci ha portato i suoi figli e sotto le feste si travestiva addirittura da Babbo Natale. Samy, dice, era un bambino dolce, affettuoso, un po’ triste, poi un adolescente introverso di cui avvertiva il malessere senza sapere come aiutarlo. Sperava che gli sarebbe passata, il più delle volte passa. Non gli passò. Passò invece attraverso quel processo orribilmente stereotipato che tanti genitori, musulmani o no, raccontano con lo stesso sentimento di impotenza e che viene chiamato radicalizzazione. Samy si mise non soltanto a pregare ma a spiegare a suo padre che se gli affari non gli andavano bene era perché non pregava, lui, e viveva come un miscredente. Samy cominciò a girare con il qamis, la tunica bianca dei musulmani. Accumulava nella sua camera brochures con titoli come «Sì! Mi sono convertito all’islam», «Come accrescere la mia fede» o «I segni della fine dei tempi». Ripeteva di continuo che l’11 settembre era stato una manovra degli ebrei. Suo padre non si lasciava incantare da tutte queste storie ( anche se sull’ultimo punto ha dei dubbi pure lui), ma preferiva non prendere di petto il ragazzo. Preferiva pensare che era meglio se restava in camera sua a seguire su internet dei predicatori salafiti piuttosto che andarsene in giro a bere o drogarsi. Quando, nell’autunno del 2013, Samy partì per la Siria, Azdyne fece tutto il possibile per credere che suo figlio fosse andato laggiù per fare «attività umanitarie» e ha lasciato di stucco tutti, al processo, parlando di Jabhat al-Nosra, la filiale siriana di al- Qa‘ ida a cui si era unito suo figlio, come di un’«associazione». Ma era sempre più difficile nascondersi che tutta la faccenda puzzava. Quella fila di Kalashnikov che vedeva dietro a Samy quando parlavano su Skype il ragazzo diceva che non erano suoi, ma di amici: non era molto rassicurante, in ogni caso, aveva degli amici strani; e due anni più tardi scoprirà che erano la banda di carnefici al cui interno sarebbe stato reclutato il commando del 13 novembre. Nel giugno del 2014 Azdyne si diede una svegliata e prese la decisione coraggiosa, un po’ folle, di partire a sua volta per la Siria per riportare indietro suo figlio. Intorno a questo viaggio, che in ogni caso fu un fallimento, c’è un piccolo mistero. Azdyne lo raccontò al suo ritorno in un’intervista a Le Monde, dove si ritrovano tutte le figure obbligate dei racconti di genitori di jihadisti: l’attesa alla frontiera turco-siriana, le discussioni con i passeurs, i cambiamenti di veicolo, il colloquio con l’emiro della katiba, l’unità di combattenti di cui faceva parte il figlio… In seguito, all’indomani degli attentati, tornò su quel racconto confessando agli investigatori della Dgsi che sì, era andato fino in Turchia, ma non aveva messo piede in Siria. Più tardi ancora tornò alla prima versione: «Ci sono andato». E a questa si è attenuto al processo, al prezzo di un discreto numero di incoerenze e sotto il fuoco incrociato di domande sempre più aggressive dagli avvocati di entrambe le parti. È la sostituta procuratrice Camille Hennetier che ha ricordato, con calma, che era testimone, non imputato, e ha aggiunto che la sua menzogna alla Dgsi era puerile, ma umana e perdonabile: in quel contesto, chi si sarebbe vantato di essere andato in Siria? Sono d’accordo con lei e credo alla scena centrale del racconto di Azdyne: il suo incontro desolato in mezzo alle pietre del paesaggio siriano con Samy, che si reggeva sulle stampelle e lo accolse gelidamente, definitivamente passato dall’altro lato. Poi il ritorno con la morte nell’anima in Turchia e quindi in Francia. Non avrebbe più rivisto suo figlio. All’obitorio, il suo corpo non era più un corpo. E le ultime immagini che esistono di quel bambino triste a cui portava i regali travestito da Babbo Natale sono quelle del video di rivendicazione dello Stato islamico dove lo si vede ridere mentre decapita un prigioniero.3. Domande senza risposteDue anni dopo gli attentati, Georges Salines, la cui figlia, Lola, era stata uccisa al Bataclan, ricevette da Azdyne Amimour una lettera che diceva: «Vorrei intrattenermi con lei su questo tragico evento, perché mi sento anch’io una vittima a causa di mio figlio». La richiesta in un primo momento lasciò Salines interdetto, ma poi accettò. È nata un’amicizia che è sfociata in un libro a due voci, Il nous reste les mots ( ci restano le parole) edito da Robert Laffont. Due padri in lutto si parlano, con il figlio dell’uno che forse ha sparato la pallottola che ha ucciso la figlia dell’altro. Leggendo il loro dialogo, ci si domanda: avere un figlio assassino non è ancora più spaventoso che avere una figlia assassinata? Questa domanda sconvolgente ho l’impressione che sia soprattutto Salines a porsela. Altre si insinuano nel varco aperto da quella: al posto del suo interlocutore avrebbe fatto di meglio? Sarebbe riuscito a fermare suo figlio sulla via del disastro? Con quali parole, quali azioni? E io, se i miei figli o mia figlia…? Non lo so, nessuno lo sa. So soltanto che il 20 novembre 2015 a mezzanotte Azdyne Amimour e la moglie vennero rilasciati, presero un taxi per rientrare a casa e per tutto il tragitto restarono in silenzio e non hanno più parlato di loro figlio.