Robinson, 18 dicembre 2021
J. K. Rowling spiega perché ha deciso di scrivere la sua prima avventura di Natale
«Io sono il prodotto di lunghi corridoi, di stanze vuote piene di sole, di silenzi al piano di sopra, di soffitte esplorate in solitudine, di rumori lontani di cisterne e tubature, e del suono del vento sotto le piastrelle. E anche di un’infinità di libri».
Così scriveva C. S. Lewis. Una della Generazione X come me non può dire le stesse cose, perché noi abbiamo avuto la tv e le boombox, e la soffitta della mia infanzia non avrebbe richiesto grandi esplorazioni perché era grande mezzo metro quadrato. D’altra parte, ho avuto boschi e campi in cui ero libera di vagare da sola, purché tornassi in tempo per i pasti. Sono certamente il prodotto della solitudine e di molti, molti libri.
Rispetto a tutti gli altri bambini ero molto più felice quando si avvicinava l’ora di andare a letto, per tutte le elaborate fantasticherie in cui mi perdevo ogni sera prima di dormire. Alcune delle mie storie avevano paragrafi prestabiliti che dovevo recitare in silenzio prima di cominciare a fantasticare. Abbellivo quei racconti fantastici finché non era più possibile introdurre nuovi dettagli, e a quel punto implodevano e perdevano il loro potere; e questo voleva dire che era ora di costruirne uno nuovo.
Ho cominciato a scrivere quando ero molto giovane. Forse, se fossi una ragazzina oggi, mi iscriverei a un gruppo di scrittura online e posterei lì le mie storie, anche se tenevo quasi sempre per me quello che scrivevo al di fuori della scuola. Allo stato attuale delle cose, solo il mio cestino della carta e io sappiamo cosa c’era nei racconti che ho scritto da bambina e da adolescente, per non parlare dei romanzi, avvizziti e morti dopo un paio di capitoli. Di una cosa sono certa: la mia me adolescente avrebbe sicuramente cercato sulla rete quel senso di sé di cui non ho avuto sentore fino a dopo i trent’anni, anche se dubito che l’avrei trovato prima. Ci vuole tempo per rendersi conto che la conoscenza di sé stessi non sta nelle etichette che ti metti addosso, e che non si ottiene con l’approvazione degli altri, anche se nel corso della storia tutti gli esseri umani hanno sperato che fosse così.
Quando avevo poco più di vent’anni lavorai a lungo a un romanzo pessimo che si intitolava The Private Joke. Lo abbandonavo regolarmente per mesi per scrivere altre cose, poi lo riprendevo. Una parte del manoscritto era nel mio bagaglio quando, a venticinque anni, presi il treno da Manchester a Londra, e mi venne l’idea per un libro completamente diverso: la storia di un ragazzino che non sa di essere un mago e viene portato in una scuola di magia.
L’idea di scrivere per i bambini non mi era mai venuta prima, non perché lo considerassi meno importante che scrivere per gli adulti (da bambina ero una lettrice vorace e alcuni libri per bambini sono ancora tra i miei preferiti), ma perché la mia infanzia non era stata molto felice. Non sono una di quelle persone che bramano il ritorno a una giovinezza meravigliosamente spensierata. Per me l’infanzia è stata un periodo di ansia e insicurezza. Eppure l’idea per Harry Potter arrivò in un’ondata di euforia, e riuscivo solo a pensare a quanto mi sarebbe piaciuto scriverlo, a quanto mi sarei divertita a costruire quel mondo nascosto. Continuai a scrivere The Private Joke insieme a La pietra filosofale per un po’, poi mi resi conto, per parafrasare la canzone di Sesame Street, che una di queste cose è meglio dell’altra, e finalmente misi fine alle sofferenze di The Private Joke.
Tutte le volte che mi hanno chiesto, mentre ancora scrivevo la saga, «qual è il segreto della popolarità di Harry Potter?», non ho mai trovato una buona risposta. Da allora mi sono resa conto che molte di quelle cose che i ragazzi trovano nei libri di Harry Potter sono le stesse che cercano online: fuga, emozioni, autodeterminazione. I libri di Harry Potter descrivono anche una comunità che vede e accoglie quelle che gli altri potrebbero considerare stranezze. Chi non vorrebbe una cosa del genere? Cosa c’è di più gratificante che sentirsi dire «sei un mago» ? Ma la cosa migliore di un libro rispetto a un social media è che i suoi lettori non si sentono costretti a conformarsi o a eccellere. È come una sala comune accogliente, un luogo in cui appartarsi, che non ti giudica. Non pretende da te cose impossibili.
Il libro per bambini che ho da poco pubblicato, Il maialino di Natale, ha avuto una gestazione lunga nove anni. Ho avuto l’idea nel 2012 e l’ho finito l’anno scorso, in un momento in cui la pandemia era al suo culmine e io ero insolitamente sensibile al bisogno di contatti umani. Credo che questo sia il motivo per cui mentre lo scrivevo immaginavo che venisse letto ad alta voce, cosa che non ho mai fatto per gli altri miei libri.
Ho sempre desiderato scrivere un racconto di Natale, ma mi ero ripromessa di farlo solo se mi fossi davvero innamorata di un’idea. Ci vuole una certa dose di coraggio per addentrarsi su quel terreno, visto il livello delle storie migliori. La storia che preferivo in assoluto durante l’infanzia era Babbo Natale di quel maestro nella costruzione di mondi che è Raymond Briggs. I miei figli adoravano il capolavoro illustrato di Allan e Janet Ahlberg, The Jolly Christmas Postman.
Quando finalmente si è presentata la mia idea per una storia natalizia lo ha fatto in modo diverso da tutte le altre storie; di solito la fonte rimane un mistero per me. Invece questo racconto è nato da un paio di maialini di pezza, alti ognuno una ventina di centimetri, fatti di spugna morbida e imbottiti di palline di plastica.
Comprai il primo per mio figlio David quando era solo un bebè. Appena fu in grado di dimostrare le sue preferenze, il maialino divenne il suo pupazzo preferito e senza di lui si rifiutava di dormire. Tuttavia, nonostante lo adorasse, aveva l’abitudine di ficcarlo sotto i cuscini, nei cassetti o dentro le scarpe, per poi dimenticare dove l’aveva messo. Questo comportava panico e ricerche frenetiche del maialino all’ora di andare a letto.
Dopo un po’, temendo che il maialino un giorno si perdesse per sempre, ne comprai un altro identico e lo nascosi in un mobile. Inevitabilmente David, che nel frattempo camminava, un giorno andò a caccia in quel mobile e lo trovò. Dichiarò che quello era il fratello del suo e lo tenne. Il primo maialino ormai è estremamente consumato e malconcio. Gli occhi sono caduti anni fa, quindi li ho sostituiti con due bottoni. Non è più morbido e vellutato, perché è stato lavato in lavatrice troppe volte. Il secondo maialino, invece, è più o meno come quando è stato comprato. Non è mai stato amato quanto il primo, mai investito dello stesso strano potere che da piccoli attribuiamo ai giocattoli che amiamo. E così un giorno mi sono messa a riflettere su cosa vuol dire essere un rimpiazzo, un sostituto… il Non- Prescelto, se vogliamo. E ho capito che finalmente avevo la mia storia natalizia.
I pupazzi del racconto hanno nomi diversi da quelli delle loro controparti reali, perché certe cose devono restare private, tra un bambino e i suoi maialini. Le uniche parti della storia che vengono direttamente dalla vita reale sono l’abitudine di Jack, l’eroe, di nascondere il suo pupazzo e di non riuscire a ritrovarlo, e la sostituzione degli occhi con due bottoni.
Ho scritto ancora una volta di un mondo nascosto e di magia, anche se completamente diversi da quelli dei libri di Harry Potter. Questa è una storia sul perdersi e ritrovarsi, sull’amore che si dà e si riceve, su ciò che rimane con noi e ciò che sparisce. Ed è anche una storia di speranza e resistenza.
La pandemia in cui ci troviamo ha scosso il nostro mondo in tutti i modi possibili. Nonostante i problemi che a volte mi ha creato, non credo di essere mai stata tanto grata a internet come nell’ultimo anno e mezzo. Senza Zoom, non avrei potuto vedere i miei familiari per un periodo lunghissimo, come mai prima. Il mondo online mi ha anche dato la gioia di riconnettermi con i lettori più piccoli, che mi hanno inviato le illustrazioni per L’Ickabog.
Tuttavia gli ultimi diciotto mesi mi hanno fatto anche riflettere su quanto siano inadeguati gli schermi a mantenere un vero legame. Proprio come niente può sostituire la presenza fisica di quelli che amiamo, che siano familiari o un vecchio maialino di pezza, il luogo in cui l’immaginazione di chi scrive e di chi legge si incontrano per creare un mondo di fantasia non potrà mai essere surclassato, nemmeno dal videogioco più sofisticato. Dove c’è uno schermo c’è una barriera; un libro invece vive dentro di noi, perché è la nostra immaginazione a dargli la vita.