La Stampa, 18 dicembre 2021
Intervista a Claudia Gerini
Roma
La felicità, dice Claudia Gerini, «è anche una scelta, viene dal non essere troppo concentrati su se stessi, dall’evitare di piangersi addosso, dal conservare un po’ di leggerezza, dal saper dire “ma chi se ne frega"». Ora che è arrivata «alla metà di cento», come dice scherzando a proposito del fatidico compleanno che festeggia oggi, può serenamente dichiarare di vivere il traguardo «con allegria, ci sono arrivata preparata, mi piaccio, mi voglio bene. È ovvio che, come accade a ognuno, anche in me ci siano fragilità, riflessioni, debolezze. Però, se mi guardo indietro, vedo che tutto mi riporta verso un sentimento di pace».
Insomma, nessun rimpianto?
«No, forse perché ho vissuto sempre con grande libertà, senza farmi condizionare e senza mai provare, anche sul piano lavorativo, la sensazione di girare a vuoto. È una questione di approccio alla vita, io ce l’ho giocoso e penso che resterà così anche quando avrò 80 anni, anzi, magari lo sarà anche di più. Sono molto curiosa, ci sono ancora un sacco di territori da esplorare, tanti registi con cui vorrei lavorare, tante occasioni per crescere. Per me ogni nuova partita, ogni nuovo film, è una pagina da scoprire, un’occasione per uscire dalla zona di conforto e mettermi alla prova, sono sempre un’allieva che sta imparando».
In questi giorni sta lavorando al montaggio del suo primo film da regista, «Tapìrulan». Come è nata l’impresa?
«È un soggetto che mi ha intrigato, appena me l’hanno proposto ho pensato che avrei voluto produrlo, poi, nella fase di ricerca del regista, è venuta fuori l’idea che avrei potuto fare un passo avanti dirigendolo io. È stata una decisione istintiva, l’ho presa come faccio sempre, senza rete».
Chi è la protagonista di «Tapìrulan»?
«È una consulente psicologica, una di quelle persone che forniscono aiuto immediato online. Ha scelto di vivere una specie di auto-reclusione, iper-connessa, con un sacco di app che usa per fare tutto, in una casa che è un loft con grandi vetrate. Nel suo passato c’è un trauma, diciamo che è una donna interrotta, immersa nella sua solitudine».
Che cosa le ha dato l’esperienza dietro la macchina da presa?
«Grande energia, senso di responsabilità, perché sul set bisogna prendere tante decisioni, e l’impressione di avere un regista con cui mi trovavo benissimo visto che era sempre d’accordo con me».
Sui set lei ci è cresciuta. Se ripensa ai suoi esordi, che sentimenti prova nei confronti di se stessa, di quella Gerini giovanissima, alle prime armi?
«Tenerezza, anche se sono sempre stata determinata, soprattutto guidata dalla passione per il mio mestiere, quindi anche da un’ambizione, dalla volontà di raggiungere obiettivi».
Del suo percorso di donna e di attrice fa parte l’esplosione del MeToo. Si è mai sentita discriminata perché donna?
«Discriminata no, anche se di sicuro avrei guadagnato di più se fossi stata un attore invece che un’attrice. I “predatori” li ho incontrati eccome, li ho evitati tenendo gli occhi aperti e conservando velocità di pensiero. Quella del MeToo è stata un’ondata positiva, in tutto il mondo e in tutti gli ambienti. L’abuso di potere maschile, la richiesta di favori sessuali, riguarda tutti i settori lavorativi, non solo il cinema, ma anche gli ospedali, la politica, i tribunali, insomma fa parte della storia delle donne. Adesso, grazie al MeToo, un uomo prima di richiedere e abusare ci pensa trecento volte, era una cosa che, a un certo punto, doveva succedere, ed è successa».
È riuscita a conciliare il suo mestiere con la maternità. È stato difficile?
«Non potrei essere quello che sono se non fossi diventata madre. E non avrei mai rinunciato ad esserlo. Diciamo che ho fatto l’equilibrista, che ho alternato periodi di assenze per lavoro con altri di pausa e di presenza. Ho rinunciato a tournée troppo lunghe e ho avuto una madre che mi ha molto aiutato. Questo non vuol dire che, come tutte le mamme che lavorano, non abbia avuto i miei sensi di colpa. Le mie figlie mi percepiscono come una mamma che lavora, ma anche come una mamma che c’è».
Nella vita di un’attrice il corpo è importante. Come vive gli inevitabili cambiamenti?
«Certo, noi attrici dobbiamo fare i conti con i primi piani, con le telecamere digitali, con la forza di gravità che avanza... comunque un conto è il viso che oggi è più maturo, un conto è il corpo, che resiste più a lungo. Faccio molto esercizio fisico, non mi piace l’inattività, mi alleno, alla fine nella mia pelle mi sento ancora bene e sulle rughe non mi concentro troppo. Preferisco pensare a una cinquantenne stupenda come Jennifer Lopez».
Nel nuovo film di Edoardo Leo «Lasciarsi un giorno a Roma», interpreta una sindaca. Che rapporto ha con la sua città?
«Sì, faccio la sindaca, purtroppo solo per finta... Roma è la grande madre, il grande incanto, sono così arrabbiata per come è stata gestita finora, bisognerebbe trovare delle soluzioni per la pulizia, per la viabilità. Sono stata contattata, insieme a Carlo Verdone, dall’assessore Miguel Gotor, l’idea è che, dal nuovo anno, la città riparta dalla cultura, ci saranno iniziative nei teatri, mi hanno chiesto di intervenire su questo argomento, spero che tutto questo serva a qualcosa». —