la Repubblica, 18 dicembre 2021
Cose che bisognava fare per vivere sereni anche d’inverno
Che il vaccino non basti, nemmeno se vacciniamo quasi tutti, nemmeno se facciamo la terza dose, nemmeno se vacciniamo i bambini, gli studiosi indipendenti lo dicono da parecchio tempo. La novità è che, da qualche giorno, lo riconoscono anche le autorità sanitarie europee. Il modo in cui questa consapevolezza si sta facendo strada, però, è alquanto fuorviante. Sembra che la colpa sia tutta della nuova variante Omicron e che, se tale variante non fosse emersa, avremmo potuto appropinquarci abbastanza sereni alle feste natalizie, difendendo con le unghie e con i denti la conquistata “normalità”.
Non è così. La variante Omicron, di cui ancora si sa poco (se non che si trasmette con estrema facilità), si limita ad aggravare un problema che c’era comunque. E il problema è: le misure adottate fin qui (vaccino + restrizioni alla libertà) possono forse bastare quando fa caldo e viviamo prevalentemente all’aperto, ma sono assolutamente insufficienti nella stagione fredda, in particolare nei quattro mesi che vanno da novembre a febbraio. Lo sappiamo, e lo sapevamo. Già qualche mese fa le analisi statistiche dell’andamento dell’epidemia suggerivano che il mero cambio della guardia fra “generale estate” e “generale inverno” potesse quadruplicare i contagi. È esattamente quel che è successo, e sono bastati appena 45 giorni perché succedesse: i contagi a metà dicembre sono 4 volte quelli di inizio novembre. Rispetto all’anno scorso la situazione è molto più grave, indipendentemente dalla variante Omicron (che in Italia ha appena fatto capolino). Ed è più grave non tanto perché abbiamo ancora più contagi dell’anno scorso, ma perché, di questi tempi, l’anno scorso la curva dei contagi era in picchiata, mentre oggi è in ascesa. Perché avvertiamo così poco il pericolo? Per due ragioni. La prima è che, fortunatamente e grazie al vaccino, il numero di ospedalizzati per Covid è un quinto dell’anno scorso (le attuali difficoltà di alcuni ospedali sono dovute al fatto che si sono smobilitati i posti Covid). La seconda è che si è scelta la via della “convivenza con il virus”, o riappropriazione della “normalità”, e tale scelta – essenzialmente politica e condivisa da destra e sinistra – implica di restare aperti il più possibile, tenendo duro finché si intravede il collasso del sistema sanitario. In breve: l’equilibrio del sistema sanitario è stato la stella polare del governo, come lo era stato del governo che lo ha preceduto.
Ora il problema è: oltre a vaccinare e rivaccinare, che cosa si può fare per evitare che la situazione precipiti ulteriormente? Dipende dall’orizzonte temporale. Nel medio periodo, spiace tornare su questo punto, la via maestra è investire nella messa in sicurezza degli ambienti chiusi. Gli ingegneri lo dicono, inascoltati, dal marzo dell’anno scorso. Ora, dopo un anno trascorso a negare o minimizzare la possibilità della trasmissione per aerosol, pare averlo capito persino l’Oms, che nei giorni scorsi – per la prima volta – ha esortato i governi ad occuparsi della ventilazione indoor. Se non mettiamo su questo obiettivo alcuni miliardi delle risorse del Pnrr siamo masochisti.
Nel breve periodo, a parte misure ovvie e condivisibili come la stretta sugli ingressi in Italia (per rallentare la penetrazione della variante Omicron), le uniche vie efficaci sono tutte dolorose, perché implicano una restrizione ulteriore della nostra libertà. È facile prevedere che il mix scelto dai politici, e legittimato dal Comitato tecnico scientifico, sarà come sempre quello meno costoso in termini di consenso immediato.
Se però ci chiediamo quali sarebbero le misure meno costose per noi, che vorremmo pagare il prezzo più basso possibile in termini di morti, di libertà, e di economia, non posso non richiamare un risultato paradossale, ma molto solido, della ricerca sulla dinamica dell’epidemia: il momento giusto per intervenire non è quando la gente è abbastanza spaventata per accettare ogni restrizione, ma è prima, molto prima, quando la gente non capirebbe perché si interviene. E questo per una ragione molto semplice: più si aspetta a correggere la dinamica dell’epidemia, invocando il principio che gli interventi devono essere “proporzionati” alla gravità della situazione, più si allunga e si indurisce il periodo delle restrizioni che saranno indispensabili per riportare l’altezza dell’onda a una misura accettabile.
Ma qual è il momento in cui occorrerebbe intervenire?
Ci sono due boe di avvertimento, come per gli tsunami. La prima segnala che il numero di contagi ha superato la soglia (circa 4.000 casi al giorno) che rende possibile il tracciamento dei casi. La seconda segnala che il valore di Rt (che misura la velocità del contagio) ha oltrepassato il valore critico di 1. Se si vuole che l’epidemia resti sotto controllo, si deve intervenire non appena una delle due boe lancia i suoi segnali. Ebbene, se ripercorriamo a ritroso gli ultimi mesi, scopriamo che la boa del numero di casi giornalieri aveva suonato l’allarme già alla fine di ottobre, mente la boa di Rt lo aveva fatto addirittura a metà ottobre: esattamente due mesi fa.
Non ho molti dubbi sul fatto che, entro la fine dell’anno, il governo sarà costretto a chiedere agli italiani ulteriori sacrifici, e magari persino a capovolgere la comunicazione verso i vaccinati, finora trattati come cittadini da premiare con più libertà, domani forse invitati ad essere iper-prudenti a dispetto della vaccinazione. Resta il rammarico di pensare che, ove ci avessero chiesto dei sacrifici quando non lo avremmo capito, ora di sacrifici ne potremmo fare molti di meno.
(www.fondazionehume.it)