la Repubblica, 18 dicembre 2021
Erdogan continua a tagliare i tassi (e la lira crolla di nuovo)
Considerata a lungo la “Cina” d’Europa, con i suoi eccezionali tassi di crescita che hanno portato milioni di cittadini a fare parte della classe media, la Turchia si è infilata in una complicata strettoia monetaria che rischia di travolgere anche l’economia reale e soprattutto le classi più povere, tradizionale bacino di voti di Erdogan.
Eppure a innescare la crisi sono state proprio le politiche del presidente. Dopo l’annuncio del taglio dei tassi per il quarto mese consecutivo, giovedì la lira ha subito un nuovo crollo, l’ennesimo dall’inizio dell’anno, arrivando a toccare ieri quota 16,80 sul dollaro. Era già successo nei primi di dicembre e anche in questo caso solo l’intervento della banca centrale ha consentito di arginare le perdite, ma il declino della moneta nazionale in 12 mesi è stato storico: —50% del suo valore, che vuol dire potere d’acquisto, salari e risparmi della working class in picchiata. I prezzi del cibo come degli affitti continuano a crescere: l’inflazione è al 21%, dicono i dati ufficiali, intorno al 58-59% secondo le stime dell’Enagroup, economisti e accademici turchi indipendenti. Per molti sta diventando difficile anche trovare medicine: i prezzi delle importazioni sono saliti riducendo le scorte.
Per parare il colpo, il presidente ha annunciato l’aumento del 50% del salario minimo. «Uno sforzo che verrà vanificato entro febbraio, marzo al massimo», dice Guldem Atabay, economista del Global Source Partners di Istanbul, «perché l’inflazione continuerà a crescere», fino al 30% il prossimo anno, prevedono gli analisti. Erdogan, contrariamente a quanto sostiene la teorica economica internazionale, è convinto che l’inflazione si combatta tagliando i tassi di interesse, non alzandoli. Una battaglia ideologica, «una guerra di liberazione nazionale» contro le istituzioni e la «speculazione internazionali», l’ha definita il presidente, sostenendo che la politica monetaria basata su alti tassi di interesse abbia «causato la stagnazione di diversi Paesi in via di sviluppo», e che i tassi di interesse alti siano un «male che rende i ricchi più ricchi e i poveri più poveri».
In tre anni la “Ergonomics” ha bruciato quattro governatori della Banca centrale, tra cui colleghi di partito del presidente, insieme all’indipendenza dell’Istituto. Mentre nel mondo le altre banche centrali hanno iniziato ad alzare i tassi o si stanno preparando a farlo, nell’ultimo anno quella turca li ha tagliati di un totale di 400 punti base. Perché questo azzardo? La crescita della Turchia si è retta negli ultimi dieci anni sul debito che banche e imprese facevano per sostenere gli investimenti, ottenendo denaro a basso costo dalla banca centrale. Alzare i tassi ora significherebbe rendere i prestiti più costosi, e dunque avere meno denaro in circolazione, meno investimenti, meno consumi, e per il presidente minor consenso politico. La sua strategia ora punta molto sulle esportazioni: tassi bassi, moneta debole, export forte. «Il problema è che questa idea non ha nessun background economico, l’inflazione galoppa e anche le banche cominciano a essere in sofferenza», osserva Atabay. Le conseguenze per la classe media e medio bassa turca sono dure. L’indice di Gini, che misura la disuguaglianza, è salito dallo 0,395 del 2019 allo 0,410 del 2020. E i sondaggi registrano il malessere sociale: il consenso del presidente e del suo partito di governo, l’Akp, è in declino. L’opposizione chiede elezioni anticipate rispetto alla data prevista del 2023. Ma se si votasse subito Erdogan rischierebbe di perderebbe con tutti i possibili sfidanti.