Corriere della Sera, 18 dicembre 2021
Mario Dondero raccontato da Angelo Ferracuti
Quando ho iniziato a leggere questo romanzo, dopo poche pagine mi è tornato alla mente Racconto di un amico di Natalia Ginzburg, dedicato a Cesare Pavese. Anche Angelo Ferracuti, qui, parla di un amico che non c’è più e lo fa perché il tempo non ne cancelli la traccia ma sia testimone dell’amore che c’è stato. In fondo, ce l’ha insegnato più di tutti proprio Ginzburg, si scrive per prolungare la vita di chi ci ha lasciato, per stare ancora assieme e condividere con gli altri le poche persone che hanno approfondito la nostra dimensione esistenziale e che, quindi, ci hanno aiutato a conoscerci meglio.
L’amico di cui parla l’autore è Mario Dondero, che non ha bisogno di presentazioni né per la precedente né per la mia generazione e che, sia detto per inciso, amava profondamente Pavese e i suoi luoghi. Da questo punto di vista Ferracuti va oltre la Ginzburg perché lo spazio che si prende per riannodare la «folla di memorie» è quello di un vero e proprio romanzo. Ma l’idea è la stessa di quel racconto contenuto ne Le piccole virtù: comporre un ritratto procedendo in modo eterodosso, come solo la letteratura può fare, un modo che non riduce la trama alla biografia, ma mette in perenne connessione la vita di chi racconta e di chi è raccontato. Ferracuti sa bene che le storie, e ancor più la memoria, sono legami prima che fatti, chiedono umanità più che resoconti. La storia di un artista come Dondero, poi, mal sopporterebbe il tempo continuo e cronologico, perché è stata una vita di salti, di andate e ritorni, di avventure e di improvvise accensioni.
In questo libro, dunque, non troverete nessuna agiografia del grande fotografo scomparso pochi anni fa e non percepirete mai la sua figura in una dimensione superiore e fuori dal tempo. Ferracuti, del resto, è autore di eccellenti reportage, intende la letteratura come racconto degli altri, crede nella sua potenza euristica e nel valore della documentazione da lavorare e restituire in una forma narrativa tesa e incalzante.
Non perde di vista questa esigenza nemmeno quando scrive romanzi dolorosamente intimi, come il suo ultimo La metà del cielo (Mondadori, 2019), che affianca al racconto dell’amore e della malattia della moglie ciò che accadeva nel mondo e negli altri, nella polis. E anche in Non ci resta che l’amore, in una forma originale e dalle tinte pastello, con un procedere piano e ritmato, accade la stessa cosa: i materiali di archivio che Ferracuti ha attentamente indagato, le interviste a personaggi meno noti e notissimi immortalati da Dondero nel corso degli anni, compongono una mappa, una geografia che restituisce non solo un legame commovente e che il lettore può facilmente trasfigurare in un canto dell’amicizia intesa in senso umanistico, ma anche la specifica grandezza di Mario Dondero, che si fa fatica a definire soltanto un fotografo perché prima di tutto fu un intellettuale, un uomo instancabilmente e voracemente curioso di persone e luoghi, della piccola e della grande storia, con una molteplicità di conoscenze e di interessi che gli permettevano di «inventare la vita» e di coinvolgere gli altri con la sua autenticità e il suo spirito.
Il primo incontro fra i due risale al 1999, nella libreria di un quartiere popolare di Fermo: ne nascerà un’amicizia ricostruita nel libro
Questa mente sprovincializzata e inquieta ha affascinato il giovane Ferracuti che lo incontra la prima volta nel 1999 in una libreria di un quartiere popolare di Fermo. Da lì nascerà un’amicizia duratura che ricostruiamo per scene ed affreschi, senza però cedere al frammento episodico. Dondero amava incontrare le storie prima di immortalarle. E siccome un amico è uno specchio in cui ci rivediamo migliori, non è difficile comprendere quanto quella prospettiva creativa sia poi diventata uno dei pilastri della ricerca letteraria dello stesso Ferracuti.
La vicinanza, dunque, è prima di tutto ideologica perché entrambi vanno a caccia di storie e si pongono come obiettivo la trasformazione in immagini di mondi e questioni, ma è anche estetica e stilistica per l’essenzialità della scrittura di Ferracuti e per l’uso scabro e diretto della macchina fotografia di Dondero. Tutti e due, poi, prima di creare, cercano una prospettiva che prediliga il mettersi a latere, la sordina, lo spazio scenico da donare agli altri. Quando Dondero nel 1989 va a Berlino non fotografa, come tutti, il muro che crolla, ma quello che attorno al muro accade: i ragazzi che si affollano o i militari che dismettono il loro ruolo, ed è in questa capacità di spostare le angolazioni e sparigliare le carte che sta una delle caratteristiche del suo genio.
Da queste pagine si stagliano a tratti sempre più nitidi due figure, un maestro e un allievo che hanno molto in comune, e che concepiscono l’arte come superamento dell’egocentrismo e della spettacolarizzazione. Ma questo libro che non raccoglie fotografie pur raccontando di un fotografo (non era facile restituire l’anima di un’immagine senza un corredo iconografico) è anche uno scrigno da cui Ferracuti fa emergere con particolare trasporto il Dondero fotografo degli scrittori, da Paolo Volponi a Pier Paolo Pasolini – si pensi a quello scatto straordinario del poeta con la madre, all’intesa e alla simbiosi che riesce a fermare – e, più in generale, il reporter di un’epoca straordinaria e irripetibile, in cui il lavoro artistico era pagato dignitosamente e in cui gli incontri creavano corrispondenze e comunità. Un’epoca che oggi non può non essere guardata con un po’ di nostalgia.