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 2021  dicembre 17 Venerdì calendario

Il "ritiro" di Hu Xijin, direttore del «Global Times»


Se n’è andato in pensione o è stato brutalmente silurato? La verità non la sapremo mai. Di certo, però, senza Hu Xijin il «Global Times» non sarà lo stesso. Senza la penna, e senza l’arrogante, velenoso e insolente nazional-comunismo dell’ormai ex direttore le sue pagine e la sua edizione in rete rischiano di ridiventare, come prima del suo arrivo nel 2005, una grigia versione minore del «Quotidiano del Popolo», l’organo di partito che nessuno vorrebbe sfogliare.
Con Hu Xijin al timone, il «Global Times» diventò, invece, tutt’altra storia. La versione inglese del quotidiano, spesso rilanciata su twitter, raccontava con vibrante tracotanza la voglia di potenza della Cina capital-comunista. Senza nascondere le sue pulsioni più oscure. Quando, nel 2019, difese a spada tratta la brutale repressione delle dimostrazioni di Hong Kong, a suo dire finanziate e appoggiate dagli Stati Uniti, Hu Xijin invitò a sparare sui manifestanti. E non esitò a invocare l’esenzione da ogni responsabilità per i poliziotti responsabili dell’eventuale uccisione di quegli oppositori paragonati ai «terroristi dell’Isis». E la stessa cinica grinta veniva impiegata anche per difendere la politica di potenza cinese.
Non a caso, nel marzo 2020, il Global Times invitava a mettere in cantiere più testate nucleari e a tener pronti i missili balistici intercontinentali per colpire i nemici della Cina. Proprio questa estroversa ed esplicita aggressività ha regalato alle edizioni in cinese e in inglese del «Global Times» un seguito senza precedenti garantendogli 67 milioni di follower su Facebook e Twitter. Ma parallelamente ha contribuito anche alla fama personale di un direttore libero di spadroneggiare su twitter – social inaccessibile a tutti i suoi connazionali – e randellare i nemici della Cina. Così nei «cinguettii» di Hi Xijin l’Australia, promotrice di un’incauta inchiesta sull’origine cinese del Covid, diventa una fastidiosa «gomma da masticare rimasta appiccicata alla suola della scarpa cinese». La Gran Bretagna, colpevole d’aver inviato nel Pacifico le proprie navi da guerra per violare uno spazio marittimo rivendicato dal Dragone è soltanto una «cagna meritevole di bastonate».
Eppure, nonostante il suo fervore nazional comunista, Hu Xijin ha sempre ammesso di aver partecipato, nella primavera 1989, a quelle manifestazioni di piazza Tienanmen spente nel sangue dal regime comunista. «Ero un giovane studente stavo in piazza, seguivo Radio Voice of America ed ascoltavo entusiasta i leader americani parlare di democrazia» – ha confessato nel 2019 in un intervista alla Cnn. Al termine della stessa intervista ha però rinnegato un’esperienza minata, a suo dire, dall’ingenuità dei dimostranti e dall’inesperienza del regime. Ma a cementare la convinzione in un Partito «ultimo difensore dell’ordine» avrebbe contribuito, nel racconto di Hu Xijin, la sua esperienza di inviato in ex-Jugoslavia dove scontri e contrapposizioni interne trascinarono un paese socialista nell’inferno della guerra.
Proprio la fiducia nelle libertà concessegli dall’amato Partito potrebbe, però, essergli costata cara. Settimane fa si vantò di sapere che la tennista Peng Shuai, scomparsa dopo avere accusato di violenza sessuale l’ex vice primo ministro Zhang Gaoli, stava bene e non godeva di limitazioni della libertà. Ma l’aver risollevato uno scandalo silenziato gli è, forse, stato fatale. Non a caso la notizia del ritiro di Hu Xijing è stata preceduta dall’anonima accusa di aver lasciato incinte due colleghe. Come dire che chi di sesso ferisce, di sesso perisce.