La Stampa, 17 dicembre 2021
Giornalisti dietro le sbarre
«Cosa sei disposto a sacrificare per la verità?»Con queste parole, ripetute due volte durante il discorso di accettazione del Nobel per la Pace, Maria Ressa richiama gli eventi più dolorosi della sua biografia, evoca il valore del mestiere del giornalista, e chiama in causa la ragione prima e ultima di questo lavoro, del nostro scrivere: la consapevolezza del lettore.È a lui che scrive Maria Ressa, è a lui che parla. A lui che indirizza quell’interrogativo, prima che a se stessa: Cosa sei disposto a sacrificare per la verità?L’ultima volta che un giornalista ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace era il 1936. Si chiamava Carl von Ossietzky e non è mai arrivato a Oslo perché rinchiuso in un campo di concentramento nazista.Quando Maria Ressa e il collega russo Dmitry Muratov sono stati nominati vincitori del Premio Nobel per la pace, il Comitato norvegese li ha descritti come «rappresentanti di tutti i giornalisti che difendono questo ideale in un mondo in cui la democrazia e la libertà di stampa affrontano condizioni sempre più avverse».Maria Ressa, parlando a Oslo, avrebbe potuto limitarsi a raccontare le vicende che l’hanno vista protagonista, i suoi arresti, avrebbe potuto compiacersi di un tale riconoscimento e ne avrebbe tutte le ragioni: fondatrice del sito indipendente Rappler, nelle Filippine, è da sempre impegnata nella difesa della libertà di stampa, pertanto invisa al potere. Soprattutto dal 2016, da quando cioè Rodrigo Duterte è a capo del Paese. Rappler ha raccontato le migliaia di esecuzioni extragiudiziali commesse con l’alibi della guerra alla droga ma che in realtà erano il capitolo armato di una guerra molto più profonda alla libera diffusione delle informazioni. L’altro capitolo era l’esposizione continua dei cittadini filippini alle campagne di disinformazione. È così, unendo le minacce alla propaganda che Duterte ha costruito il consenso.E, ovviamente, screditando chi lo criticava, come Rappler, accusato di essere un «sito di fake news finanziato dalla Cia». E screditando Maria Ressa, trattata come spia.Avrebbe potuto mettere in fila questi eventi. Invece Maria Ressa ha chiamato in causa il lettore, ognuno di noi: Cosa siamo disposti a sacrificare per la verità?Negli ultimi anni, Ressa ha ricevuto dieci mandati di arresto, dal 2019 è stata detenuta due volte. Nel luglio del 2020 è stata condannata a sei anni per «diffamazione informativa». Condanna per cui è ha fatto ricorso davanti al tribunale di Manila, appellandosi contro la legge filippina che criminalizza il giornalismo in violazione degli obblighi di diritto internazionale sui diritti umani.Era la gestione autoritaria dello Stato, da parte di Duterte, certo, con la responsabilità dei giganti della tecnologia che, ha affermato Ressa «hanno permesso a un virus di bugie di infettare ognuno di noi».Ognuno di noi.Maria Ressa è stata il canarino in miniera. Le detenzioni arbitrarie e i processi a suo carico servivano a Duterte come ostensione del potere ma funzionavano anche da allarme: attenzione ai vettori di informazioni che permettono la disinformazione e l’incitamento all’odio virale. Questo raccontava e racconta la biografia di Maria Ressa. Attenzione, perché accade qui, a Manila, ma può accadere ovunque.E infatti accade.Ieri Reporters sans frontières (Rsf) ha pubblicato l’ultimo rapporto annuale sugli abusi commessi contro i giornalisti. L’organizzazione monitora lo stato di salute del rispetto dei giornalisti nel mondo dal 1995, e quest’anno il referto è pessimo. Il paziente grave. Sono 488 i giornalisti detenuti in tutto il mondo, il 20% in più dello scorso anno il numero più alto di operatori dei media incarcerati da vent’anni a questa parte.I dati, si legge nel report, si devono principalmente al risultato di tre Paesi: «La Cina con 127 giornalisti detenuti, numero che si deve anche alla legge sulla sicurezza nazionale ad Hong Kong, un tempo modello per il rispetto della libertà di stampa nella regione grazie allo suo status speciale, ma dove – negli ultimi mesi – sono stati arrestati almeno 10 cronisti, poi il Myanmar dove lo scorso febbraio i militari hanno ripreso il potere con un colpo di Stato e dove sono detenuti 53 giornalisti e la Bielorussia. Nel Paese governato da Alexander Lukashenko dopo la controversa rielezione, lo scorso anno i cronisti in prigione erano sette. Quest’anno 32.Mai tanti incarcerati. Mai tante donne, 60. Un terzo in più del 2020.Notizie pessime e notizie apparentemente buone ma da leggere in prospettiva. Calano i giornalisti uccisi, che sono 46. Bisogna tornare al 2003 per trovare un altro anno con meno di 50 giornalisti uccisi.Calano i morti perché calano le tensioni su alcuni fronti, certo, ma calano i morti anche perché ai giornalisti è sempre meno consentito di recarsi su quei fronti di guerra, conflitto, ingiustizie e documentarli. E calano i morti perché non andare in una zona di conflitto è una forma, come ricorda Christophe Deloire, direttore di RSf, di «autocensura che ha portato i giornalisti ad andare meno in territori pericolosi».E perché si va meno, se a quello è chiamato il cronista, a esserci, documentare, verificare. Lì, a testimoniare.Si va sempre meno anche in conseguenza di nuovi equilibri geopolitici in cui i regimi autoritari non sono sottoposti a pressioni sufficienti per frenare le loro repressioni.Come a dire, ancora una volta, come funzioni il doppio standard dell’Occidente.Pronto a fare affari con regimi autoritari, ma non altrettanto pronto a puntare i piedi in difesa dei diritti umani, del diritto all’informazione.«Senza fatti, non si ha verità. Senza verità, non puoi avere fiducia. Senza fiducia non possediamo una realtà condivisa né democrazia, e diventa impossibile affrontare i problemi del nostro mondo: il clima, l’epidemia, la battaglia per la verità». È anche ai governi occidentali che era rivolta la domanda di Maria Ressa: cosa siete disposti a sacrificare, voi? La consapevolezza del lettore, forse, l’ingrediente principale della coscienza condivisa.Qualche decennio fa, Vasilij Grossman raccontò le vicende del secondo conflitto mondiale sul fronte Est europeo, come inviato speciale di «Krasnaja zvezda» (Stella Rossa), il giornale dell’esercito sovietico che da giornalista seguì per tre anni tra l’Ucraina, Mosca e l’assedio di Stalingrado.Scrisse cercando di liberare i lettori dalla retorica della propaganda. I suoi anni di taccuini che hanno resistito al tempo e alle censure, si attenevano a un principio che Grossman annota così: «Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità». Non solo il dovere civile di raccontare, ma il dovere civile di conoscere.È alla comunità che fa danno il potere quando censura, punisce, incarcera i giornalisti, perché è nello spazio di consapevolezza della comunità che si costruisce la coscienza della memoria e la capacità di distinguere il vero dal falso. —