Linkiesta, 17 dicembre 2021
I cinque pezzi facili di Jovanotti
Meno male che c’è ancora qualcuno che il racconto di sé lo fa passare dalle opere d’ingegno, e non dai talk show o dalle storie di Instagram.
Ci penso in continuazione: a come ci siamo persi l’io narrante, al fatto che il più insanabile concetto suggeritoci dal diavolo sia stata la disintermediazione, a come siamo stati scemi a permettere che andasse tutto a puttane, il meno divertente degli andare a puttane nella storia dell’uomo.
Ogni tanto, quando ci penso, mi ricordo un’intervista che feci tanti anni fa a Favino: mi spiegò che la ragione per cui quegli attori italiani che ci tengono a essere presi sul serio danno interviste noiosissime è che se ai giornali racconti i fatti tuoi poi i fatti tuoi diventano uguali a quelli di Belen (aggiunse anche una cosa tipo: «Lo dico con tutto il rispetto per Belen»; mi fece sorridere: all’epoca io non ero ancora terrorizzata dalla decontestualizzazione, ma lui era più avanti di me).
Avrei dovuto rispondergli che per quello era giusto seppellire gli attori in terra sconsacrata: perché non hanno margine di manovra per fare dei fatti loro un’opera d’ingegno, diversamente dagli autori di film o di letteratura o di canzoni. Perché non hanno le parole: usano quelle degli altri. Ma alle risposte giuste, se non hai un drammaturgo bravo a scriverti i dialoghi, pensi sempre dopo.
Ci ho pensato ogni volta, era più o meno un anno fa, che qualcuno mi ha detto «ma secondo te un’intervista me la dà?», e il soggetto sottinteso era Lorenzo Cherubini, e il tema sottinteso era che sua figlia aveva avuto un cancro e poi era guarita, e la risposta sottintesa era: ma come cazzo ti viene in mente.
Non perché fossero fatti suoi – lo erano; ma, quando sei la figlia di uno famoso e dici a Instagram che sei guarita, il giorno dopo il tuo Instagram sta su tutti i giornali, e i fatti tuoi hanno inevitabilmente smesso d’essere tuoi – ma perché quello lì mica è un attore: le parole con cui vuole raccontare i fatti suoi mica le fa trovare a qualcun altro.
Nella cartella stampa dei cinque pezzi facili che Lorenzo ha fatto uscire ieri c’è un rigo su Rick Rubin che è il primo rigo su Rick Rubin che abbia trovato interessante da quando Lorenzo ha iniziato a farsi produrre le canzoni da lui e tutti hanno iniziato a scrivere del Grande Produttore Americano con la voluttà dei provinciali, e più sbrodolavano reverenza più mi annoiavo: gente che non sa che le canzoni sono le parole che scrivevamo con l’uniposca sul diario di Snoopy, mica i giri di basso.
Il rigo è relativo a I love you baby, e fa così: «Mr. Rubin vuol sentire soprattutto le cose di cui mi vergogno un po’ (perché le cose forti si trovano quasi sempre oltre al pudore e alle zone comode)». Sì, lo so che lo sapevate già, lo so che questa cosa della vergogna come materiale narrativo l’hanno detta in mille milioni di autori, da Scott Fitzgerald giù fino a Soncini. Però.
Però a diciott’anni uscii da un cinema dove avevo sentito per la prima volta Can’t take my eyes off you, la cantava Michelle Pfeiffer in un film che non voglio rivedere per paura che mi sembri meno capolavoro d’allora, andai da Nannucci, che era un negozio di dischi di Bologna, quando esistevano (i dischi, e pure i negozi), e chiesi «quella che fa: I love you baby».
Che dev’essere più o meno la stessa cosa successa a Lorenzo, che aspettava e guardava sua figlia e pensava a quella vecchia canzone che fa I love you baby, e si diceva che bastava stare lì a ripetere I love you baby finché la luce dei suoi occhi non tornava nei suoi occhi, che se lo trascrivo è melenso ma poi se fai quelle cose da maschi di metterci del ritmo sotto lo struggimento si nota subito meno, i giri di basso servono a farti dimenticare che del sentimentalismo ti vergogni.
Quando non diceva a sé stesso I love you baby, si diceva che «La morte è quella cosa che agli altri può succedere ma resta sempre la speranza che a noi non accadrà», o si diceva che avrebbe dovuto dirselo perché il pensiero positivo è una benedizione esistenziale ma una condanna artistica, e tuttavia intanto che decidi se riesci davvero a pensare che muoiono solo gli stronzi puoi annotarti ’sto verso che mica è malaccio.
Poi, siccome non vorrei stare troppe righe senza parlare di me, ci tengo a precisare che Cinque pezzi facili era il film feticcio della mia cotta dei diciott’anni, sì insomma di quello che m’aveva portato a vedere la Pfeiffer che cantava I love you baby, e quando ho visto che Lorenzo nella cartella stampa definiva le canzoni uscite ieri «cinque pezzi facili» ho pensato che la vita è sceneggiatrice (e che Lorenzo è furbissimo a evocare l’accostamento con uno dei più grandi fighi mai passati su questo pianeta, ma se vuole fare Jack Nicholson deve smetterla col salutismo e sfasciarsi un po’, lo dico da studiosa del signor Nicholson ma pure dello sfascio).
«Meno male che esisti ché sennò ti avrei dovuto inventare da zero come fanno gli artisti. I love you baby: più chiaro di così non c’era»: meno male che ci sono quelli che il commercio dell’ego lo sanno fare coi metodi antichi, e ti lasciano lì a domandarti se, in quella frase che stai canticchiando, l’autore parlasse della figlia o di sé.