il Giornale, 16 dicembre 2021
Contro i soliti fanatici dell’ambiente
«Non dobbiamo salvare il pianeta ma noi stessi». Sono frasi come questa che mi fanno perdonare a Maurizio Ferraris tantissime cose, l’ateismo, il materialismo, il dozzinale antitrumpismo, il darwinismo estremo e degradante (non scrive mai «uomini», scrive sempre «umani»), l’esaltazione acritica della tecnica, fino a una sorta di covidismo spiritoso che a me non fa ridere e nemmeno sorridere, forse perché spiritoso non sono o forse perché la pandemia è l’ultima cosa sulla quale è possibile ironizzare. Sono incidenti che capitano a chi scrive tanto, pensa tanto, spazia tanto. Esistono filosofi che sembrano avere una sola cosa da dire, ad esempio Agamben che dal 2020 batte e ribatte sullo stesso tasto. Probabilmente è un tasto giusto ma il risultato è piuttosto monotono. Anche Cacciari e Fusaro, per citare gli altri campioni dell’anticovidismo, non mi risultano capaci di molte variazioni. Ferraris è diverso e lo conferma con Post-Coronial Studies. Seicento sfumature di virus (Einaudi, pagg. 136, euro 12), un piccolo libro ricchissimo di spunti, magari non proprio seicento ma comunque tanti.
Dicevo della natura. L’ambientalismo come nuova religione è stato descritto in Francia da Pascal Bruckner e Chantal Delsol, in Italia da Eugenio Capozzi e Giulio Meotti (l’ho recensito qui di recente), ma sempre in chiave più o meno apocalittica. Comprensibilmente apocalittica, sia chiaro. Mentre Ferraris è uomo irreligioso, impermeabile alla prospettiva cristiana, tecno-ottimista anziché teo-tragico e dunque portatore di una visione peculiare: «La pretesa secolarizzazione non è la morte di Dio, ma semplicemente una lotta tra i vecchi e i nuovi dèi, il vero grande evento è appunto il passaggio delle consegne dal Vegliardo Barbuto a Madre Natura». La rara consapevolezza del passaggio epocale compare in altri punti del libro, magari senza la medesima linearità ma fa capolino spesso, ad esempio a pagina 51: «Scomparso il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, resta il Dio dei filosofi, l’autocoscienza secolarizzata che ha fatto sì che di fronte al virus non ci si sia rifugiati in chiesa o contagiati in processioni, segno che un nuovo Dio, la scienza, ha presa sugli umani». Che le masse secolarizzate e covidizzate credano nel Dio di Socrate, colui che aleggia misterioso nelle pagine stupende dell’Apologia, mi appare alquanto dubbio. E c’è qualcos’altro che non mi quadra: gli occidentali (di costoro stiamo parlando) si sono inginocchiati a Madre Natura oppure alla Scienza? Magari, senza badare alla contraddizione, a tutte e due le divinità nello stesso tempo? Qualunque sia la risposta resta indubbio l’abbandono delle religioni organizzate, la disaffezione verso le chiese cristiane anche se con diverse sfumature di sventura (anglicani e luterani stanno perfino peggio dei cattolici). Questa non è filosofia platonica, è vita quotidiana: mi ha appena telefonato un amico di Roma, turbatissimo per aver appreso che nell’asilo comunale frequentato da sua figlia non è stato fatto il presepe. Ho svolto una mini-indagine per scoprire, turbato quasi quanto lui, che non è un caso isolato, che nel centro della capitale della cristianità i presepi scolastici sono un caro ricordo. Roma espugnata! Se non è la fine della nostra civiltà spiegatemelo voi che cos’è, sono tutt’orecchi.
C’erano una volta la Fede, la Speranza, la Carità, ormai in cantina assieme a pastori e Re Magi, mentre oggi, fa notare Ferraris lucido e luciferino, furoreggia una nuova virtù teologale denominata «resilienza». Che purtroppo è un vizio intellettuale: «Con quel termine si designa la proprietà di un metallo di ritornare allo stato di partenza. Il che, trasferito all’umano, significa essere incapace di imparare dall’esperienza propria e altrui». Nel complesso non sono incoraggianti gli studi post-coronavirus del filosofo torinese. Così come il libro precedente, il più voluminoso e ambizioso Documanità (Laterza, pagg. 440, euro 24) in cui annunciava serafico che «siamo la società più vicina al comunismo che la storia abbia mai conosciuto» e che «non c’è niente di sbagliato nel pensare che l’intelligenza artificiale sia stata inventata per portarci via il lavoro: è proprio così». Per un lumicino di speranza devo ricorrere a un’intervista: «I pittori dell’Ottocento si sono visti portare via il lavoro dalla fotografia. E adesso, scomparsa la fotografia, restano i pittori». Meno male: qualche volta al posto dei disoccupati può suicidarsi la tecnica... In Post-Coronial Studies si può ridere (amaro) soltanto per il sarcasmo gettato addosso agli ambientalisti baggiani: «Il virus è natura, e noi siamo il suo ambiente, sicché ogni tentativo di difenderci dal virus andrebbe considerato come un attacco verso l’ambiente». Logica addirittura aristotelica. «E se è vero che riscaldamento climatico, deforestazione e aumento del traffico aereo sono i primi indiziati quanto alla genesi del coronavirus, allora jet, deforestazione e riscaldamento globale potenziano la natura più di qualunque processione ecologica». Ineccepibile.