Corriere della Sera, 16 dicembre 2021
Intervista a Carlo Cracco
Si è lanciato tra le fiamme di un incendio per salvare bottiglie di vino prezioso. Con i primi soldi guadagnati come aiuto di cucina aveva iniziato a collezionare vini che ancora non stappa. Nel suo ristorante in Galleria a Milano ha fatto costruire una cantina con 2.500 etichette e spettacolari serie di annate che riposano tra legni pregiati e sistemi di sicurezza degni del caveau di una banca svizzera. La vera passione nascosta di Carlo Cracco, chef vicentino di 56 anni, è il vino. Al punto da diventare produttore: ha acquistato un’azienda agricola a Sant’Arcangelo di Romagna. Si chiama Vistamare. Produce La Ciola (Rubicone bianco, miscela di Grechetto Gentile, Malvasia di Candia e Bombino) e Fiammarossa (Trebbiano Rubicone). Il mese scorso è stato premiato come personaggio dell’anno dai produttori del Brunello di Montalcino. L’ultima dichiarazione d’amore per il mondo dei vignaioli è stata l’apertura di un wine club nella sua cantina: pochi clienti invitati ad incontrare un produttore iconico. Cena e degustazione per 12 persone. Il primo ad aprire la serie è stato Martino Manetti della cantina toscana Montevertine. E non è stato un nome scelto a caso.
«Quando lavoravo a Firenze all’Enoteca Pinchiorri – racconta Cracco – ci fu un incendio che distrusse 25 mila bottiglie. Bruciava tutto. Ho messo in salvo quante più bottiglie potevo. Anche una Jeroboam (3 litri) di Montevertine, Le Pergole Torte del 1981. Giorgio Pinchiorri me l’ha regalata come ricompensa. È ancora qui, mi segue».
Quando ha iniziato ad occuparsi di vino?
«Ho fatto il primo corso di sommelier a 20 anni con Giuseppe Vaccarini. Durante le lezioni mi maltrattavano, ma poi l’esame l’ho passato lo stesso, nel 1987, quando lavoravo da Gualtiero Marchesi».
Perché la maltrattavano?
«Mi dicevano che ero un cuoco e dovevo fare il cuoco e stop. Ma avevo, e ho ancora, una vera passione per il vino. Se fossi stato astemio sarei ricchissimo. I primi soldi che ho guadagnato li ho usati per comprare vino».
E lo beveva?
«Lo mettevo via. Mi sono ritrovato con migliaia di bottiglie, accumulate grazie ai risparmi, poche per volta. Non lo bevevo anche perché lavoravo come un matto, non ce l’avrei fatta».
Adesso è diventato anche produttore.
«C’è stata una possibilità a Sant’Arcangelo di Romagna, il paese di mia moglie Rosa. Volevamo coltivare la frutta e la verdura. Ma prima di firmare ho visto che c’erano vigne in buona salute. È stato un sollievo. Ho detto compriamo tutto e via».
Ha chiamato un enologo famoso, Luca D’Attoma.
«Se le cose le faccio, mi piace farle bene. Ho chiamato Luca D’Attoma e gli ho chiesto se si poteva fare un vino buono. Siamo in una zona non molto nota per il vino».
E la frutta?
«Ci sono quattro ettari, un frutteto, un oliveto e stiamo ristrutturando le case. Ci vuole un po’ di tempo».
Quanti milioni ha investito per la nuova cantina in Galleria?
«La malattia del vino non mi ha mai lasciato, ho sempre acquistato bottiglie non tanto per il valore ma per la persona e la storia che stanno dietro all’etichetta. Mi piace che parlino del territorio da cui vengono. È un po’ come la cucina, siamo tutti cuochi ma ognuno cerca di dare il suo tocco. La cosa più bella è far emergere questa differenza».
Durante il lockdown cosa ha fatto, con ristorante e cantina chiusi?
«Sono rimasto a casa tre ore, non di più. Non riesco a stare fermo, anche se sto bene con mia moglie e i miei figli. Ho pensato: abbiamo le celle frigorifere piene di cibo, non ci sono prospettive di aprire. Ho chiamato il Comune e la Regione e ho detto: regalo tutto, tanto non ne posso far nulla».
Che hanno risposto?
«Venga alle 21 in Fiera. Vado. Mi chiedono: se la sente di far da mangiare agli operai che stanno costruendo l’ospedale? Ho chiesto: la cucina c’è? Non c’era. Chiedo: quanti sono gli operai? Domani 50 ma cresceranno di 100 in 100 ogni giorno, mi rispondono. Fino a 500. Ho detto ok».
E come ha fatto?
«Noi qualche ristorante ce l’abbiamo. Ma siamo pur sempre una piccola azienda. Abbiamo iniziato il giorno dopo, cucinavamo in Galleria e portavamo lì il cibo. Siamo arrivati a 450 pasti al giorno. È stata la prima volta che ho visto mangiare così tanto in così breve tempo. Il piatto medio di pasta era di 400 grammi, poi secondo, contorno e dessert».
Da dove venivano gli operai?
«Da tutta Italia. Poi egiziani, moldavi, indiani, marocchini, sembrava una Babele. E ci siamo trovati bene. Dopo una settimana abbiamo esaurito tutto. Ma abbiamo lavorato 25 giorni. Abbiamo chiamato tutti i nostri fornitori e ci hanno aiutato, soprattutto nelle enormi quantità. È stata un’esperienza bellissima».
Che cosa le è rimasto di quel periodo?
«A parte il dolore di aver perso qualche caro, abbiamo capito quanto sia importante la socialità. La socialità è il tavolo, sedersi, mangiare, bere e conversare».
Il suo ristorante si è riempito di nuovo?
«Anche persone che prima venivano di rado, ora tornano più spesso, sono stati fin troppo a casa».
Pensava di fare il cuoco quando era un bambino?
«Ho subito scelto questa strada. I miei dicevano che pensavo solo a mangiare e bere. Dicevano: questo fa il lazzarone, finge di studiare, ma va a divertirsi».
E avevano torto?
«Non sbagliavano del tutto, ma non era solo baldoria. Fino al servizio militare sono rimasto a Vicenza, proibito uscire. Dopo il diploma avevo già le idee chiare. E sono andato da Gualtiero Marchesi».
Com’era come mentore?
«Era la persona più innovativa in Italia, per la cucina. Mi aveva affascinato dopo due lezioni a Milano, a forza di assillarlo sono entrato nella brigata. Sono rimasto quattro anni. Poi sono andato in Francia, poi a Firenze all’Enoteca Pinchiorri. Una delle migliori cantine del mondo. Un periodo che ha fatto decollare la mia passione, con Giorgio la domenica si girava a provare ristoranti e grandi bottiglie».
Che faceva nel tempo libero a Firenze?
«L’impegno era tanto. Non sono mai uscito una sera, per un anno. Ma la domenica ci si divertiva».
I suoi figli seguiranno la sua strada in cucina?
«Ne ho quattro, due femmine e due maschi. Sperando che almeno uno... Io sono il quarto di quattro».
La regola del quattro.
«La prima studia Lettere moderne, ma mai dire mai. Ho cercato di dargli input, io sono stato libero di scegliere e lascerò la libertà di scegliere, speriamo che qualcuno provveda».
I suoi erano del ramo?
«No, mio padre lavorava alle Ferrovie e mia mamma era casalinga».
Il suo simbolo è l’uovo, perché?
«È un simbolo di fertilità, compare in molti dipinti».
È considerato, dopo «MasterChef», un cattivo.
«Cattivo? Sono una bestia – dice ridendo – ma ho imparato a domare questo istinto. Ho fatto sei edizioni di MasterChef, ma penso che per trent’anni sarò considerato sempre quello cattivo. L’unico punto che mi consola è che, quando guardo le vecchie puntate, mi rivedo più giovane e senza capelli grigi».
Lo rifarebbe adesso?
«Quando decido che una cosa è finita non torno indietro. È finita davvero. Mi sono preso una pausa di cinque anni dalla televisione. Poi ho partecipato a Dinner Club. Volevo proprio un programma così. Raccontare il territorio meno battuto e attraverso la cucina le persone, anche con i vini. Questa è una narrazione che vorrei continuare a portare avanti».
Quale personaggio di «Dinner Club» la diverte di più?
«A livello di quantità è Diego Abatantuono, stargli dietro è faticoso».
Mangia come gli operai della Fiera?
«Parlo di bere. Pierfrancesco Favino invece è attento, gli piace bere bene. Tutti sono affascinati da quello che sta dietro a un ingrediente o a un cibo. È bello conoscere una signora di 90 anni che impasta in casa, e riesce a trasmettere il suo sapere, a tramandarlo».
Sembra il copione della prima trasmissione Rai di Mario Soldati, «Il viaggio nella valle del Po».
«Infatti la prima puntata l’abbiamo girata proprio lungo il Po, come un omaggio a Soldati».