la Repubblica, 16 dicembre 2021
Reportage dal Dombass
AVDIIVKA (UCRAINA ORIENTALE)
— È un tratto di trincea che tutti chiamano il “budello della morte” per via dei tanti soldati centrati dai cecchini. Da qui, le linee nemiche distano appena un centinaio di metri. Sono così vicine che riesci ad ascoltare le conversazioni dei separatisti filorussi. «Ma da Mosca i ribelli hanno ricevuto fucili ad alta precisione con cui possono spararci anche a un chilometro di distanza», spiega il luogotenente Michail Novitskij, 29 anni, barba bionda e occhi blu acciaio, che comanda l’ultimo avamposto ucraino al fronte nel Donbass. «Da qualche mese usano sempre più spesso missili teleguidati e ogni tipo di drone, sia per sganciare le vietatissime bombe a grappolo sia per intercettare le nostre comunicazioni o confondere gli strumenti di controllo degli osservatori dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce)».
Eravamo venuti ad Avdiika lo scorso aprile, quando il presidente russo Vladimir Putin aveva ammassato centomila uomini ai confini con l’Ucraina. Otto mesi dopo ritroviamo in prima linea le stesse truppe, forse più scarne e più sdrucite di allora ma non meno motivate. «Ci prepariamo al peggio perché sappiamo che se dovessero fallire i negoziati diplomatici ai russi rimarrebbe soltanto l’opzione militare. E noi li aspettiamo qui, pronti a fermarli», dice con toni di patriottica fierezza l’ufficiale Oleksij Vasianov, 22 anni, che in questo conflitto sostiene di essere invecchiato. «Ho partecipato alla rivoluzione pro-europeista di Maidan quand’ero studente, mi sono poi laureato all’Accademia militare e da allora combatto contro i filorussi in Ucraina Orientale».
È Vasianov a condurci nel “budello della morte” dove un paio di soldati, protetti da sacchi di sabbia e grossi copertoni di camion, scrutano l’orizzonte grazie a un periscopio da trincea. Sulla parte più esposta dell’argine sono state aperte due finestre, sempre sbarrate da una pesante botola di legno, salvo quando il comando decide di rispondere al fuoco nemico. «Un paio di volte al giorno i filorussi cominciano a spararci addosso, con armi di ogni calibro. Lo fanno solo per provocarci. Quando il fuoco si fa troppo nutrito, siamo costretti a rispondere». Per questo, l’avamposto ucraino, creato in un vecchio impianto per il riciclo di rifiuti tossici, somiglia a un’enorme forma di groviera, tutto buchi e squarci e voragini. Al suo interno i soldati hanno formato un dedalo di tunnel e camminamenti segreti che all’esterno comunicano con trincee lunghe qualche chilometro.
La guerra nel Donbass è scoppiata nel 2014 quando, foraggiate da Mosca, le milizie separatiste fondarono le repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Da allora ha già provocato quindicimila morti, e continua a mietere vittime, con gli osservatori dell’Osce che ogni giorno registrano circa cinquecento violazioni degli accordi di cessate il fuoco firmati l’11 febbraio 2015 a Minsk. Quando chiediamo a Vasianov se sono aumentati i combattimenti nelle ultime settimane, e cioè da quando il Pentagono ha denunciato un rapido rafforzamento militare della Russia vicino ai confini ucraini, lui alza le spalle. Poi dice: «Siamo abituati ai movimenti di truppe vicino alle nostre frontiere. E negli ultimi tempi non è cambiato nulla. Lungo gli oltre quattrocento chilometri che spaccano in due l’Ucraina dal Donbass separatista si continua a combattere e a morire. Per noi ogni giorno è soltanto un nuovo giorno di guerra». Tuttavia Vasianov aggiunge di essersi recentemente accorto dell’aumento di cecchini russi, perché i loro proiettili seguono traiettorie molto più precise. Lo stesso discorso vale per i colpi di mortaio, che quando sono sparati dell’esercito di Mosca fanno raramente cilecca. «Cercano di destabilizzarci con ogni mezzo e di spingerci a infrangere le regole, per poi urlare che l’esercito ucraino commette crimini di guerra».
Nella sala del comando ci sono due televisori a circuito chiuso con le telecamere dirette verso le linee nemiche, un tavolaccio e un divano sfondato. In un angolo, crepita il fuoco di una piccola stufa a legna. È qui che, dopo massacranti turni di guardia all’addiaccio, vengono a scaldarsi i poilus ucraini. Secondo il comandante Oleksandr Timoshuk, Putin non attaccherà: «Gli costerebbe troppo in termini di uomini e di prestigio internazionale. L’ammasso di truppe ai nostri confini è un bluff con cui spera di risolvere in patria i suoi problemi di popolarità in calo. Per poter rivestire i panni del comandante supremo gli serve di un nemico esterno». Fatto sta che la Russia dispone di diversi modi per colpire l’Ucraina, grazie alle navi da guerra che pattugliano nel Mare di Azov, ai caccia che hanno ripreso a sorvolare i confini, alle armi tecnologiche, alle forze di terra, ai paracadutisti e, infine, al suo potente arsenale missilistico. Anche gli obiettivi del Cremlino sono molteplici, dalla conquista delle riserve d’acqua a nord della Crimea che sono controllate da Kiev alla destituzione del presidente Volodymyr Zelensky, che verrebbe sostituito con qualcuno più filo- Mosca. «Il primo scopo di Putin è eliminare ogni nostra aspirazione euro-atlantica e controllare tutto ciò che accade in Ucraina, che ai suoi occhi potrebbe diventare una base per le forze che gli sono ostili. Anche per questo credo che alla fine rinuncerà a invaderci, perché sa bene che rischia di perdere l’appoggio degli ucraini che ancora parteggiano per la Russia. Se prima del 2014 il sostegno alla Nato era minoritario, adesso è largamente maggioritario», aggiunge Timoshuk. Ad Avdiivka il sole tramonta presto, e alle quattro e mezzo è già notte fonda. La prima granata esplode alle cinque meno dieci e il suo frastuono sfonda le orecchie anche a chi è al sicuro sottoterra. È solo l’inizio di una pioggia di bombe che andrà avanti per tutta la notte.