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 2021  dicembre 15 Mercoledì calendario

Biografia di Rocco Papaleo raccontata da lui stesso

Pensi a Rocco Papaleo e lo vedi coconduttore di Gianni Morandi a Sanremo 2012 mentre l’Ariston in piedi fa il ballo della Foca e canta con lui «tu-tuf tu-tuf». O pensi al Basilicata Coast to Coast che fu la sua prima regia e che vinse due David di Donatello. Rivedi lo sguardo stralunato e spiritato, lo stesso che ha mentre mi parla e che è il marchio di personaggi indimenticabili, come Athos, il moschettiere di Giovanni Veronesi o il Gatto del Pinocchio di Matteo Garrone. «Non mi concentrerei sullo sguardo», mi dice, «la mia è più una ricerca di musicalità. Io recito e contemporaneamente canto senza farmene accorgere».Com’è cantare senza farsene accorgere?
«È come un jazz dell’espressione, molto nascosto, che però ha un suo andazzo, con pause, ghirigori, scale di note che vanno e vengono».
Il personaggio più musicale?
«Il Cervo Nero del Grande Spirito di Sergio Rubini, un candido visionario con una visione favolistica e onirica della vita e con doni speciali. Aveva un sound bellissimo. È stata una delle rare volte che ho recitato come in trance. Sembro spontaneo, ma sono un attore molto razionale».
Quella musica se la porta a casa di notte?
«Io e il personaggio siamo una coppia aperta. Se ci va di stare insieme, magari si corica pure con me, ma a volte non lo incrocio per intere giornate e capita che recito e non si manifesti».
E se non si manifesta?
«Be’, faccio schifo. Poi molti non se ne accorgono perché mi hanno in simpatia, ma io lo so».
Un blob dei suoi momenti migliori?
«Athos in Tutti per 1, 1 per tutti, quando gli altri due hanno disertato e lui torna al galoppo: al galoppo non ero mai andato, fa paura, ma sono sceso e sembravo un cavaliere di grande agilità. E poi con Anna Foglietta nell’ultimo film di Carlo Verdone, quando la seduco facendole credere di essere malato e poi la bacio. A ritroso, un comizio in Del perduto amore di Michele Placido: mi è riuscito bene perché mi ricordavo quelli visti al paese. E qualche scena del Pranzo della domenica di Carlo Vanzina: mi spiace che per alcuni non sia un regista nobile».
Qual è il momento topico della gioventù?
«Quando scelsi lo Scientifico solo perché stava a Lagonegro, 19 chilometri da Lauria. Dovevo alzarmi un’ora prima, ma mi dava l’idea di viaggiare, avere libertà. Potevo fumare per strada: avevo iniziato l’estate dopo le medie, con mamma, di nascosto da mio padre».
A fumare, a 13 anni con sua mamma?
«Prendevamo il pacchetto, l’aprivamo da sotto, sfilavamo una sigaretta e lo ricomponevamo affinché lui non se ne accorgesse. Era un gioco, un’intimità spericolata. Con mamma ho avuto un rapporto di gran confidenza, almeno finché le problematiche erano accessibili sia a me sia a lei, che non era un’intellettuale ed era religiosa al limite del bigotto. Però, era tanto simpatica».
E lei che bambino era?
«Felice, figlio unico in una famiglia degli anni ’60, con papà impiegato delle imposte, i parenti nei giorni di festa. Avevo tutto quello che desideravo o forse non avevo desideri eccessivi».
S’intuiva già la vena comica?
«Ero vivace, zia Teresa si ricorda che zompavo dal tavolo al divano. Mi piaceva scherzare, ma non è che si prospettava una vita d’artista».
A scuola se la cavava?
«Scrivevo bei compiti di italiano. Una volta ne scrissi uno su Corradino di Svevia e il prof lo annullò: era così bello che pensò l’avessi copiato».
Però, all’università, scelse Matematica.
«Soprattutto per andare a Roma. Era il 1976, tutti i ragazzi di provincia sognavano la città pensando di trovarci l’Eden. In parte era vero, era tutto più affascinante, anche troppo, tant’è che non ho concluso niente: davo giusto un esame all’anno per rimandare il militare».
Che faceva il resto del tempo?
«Suonavo la chitarra, andavo al cinema, ma non pensavo di fare l’attore, al limite il cantautore. Però ero considerato un tipo simpatico: il prof di Fisica 2, se sentiva l’attenzione calare, mi faceva una domanda e io dicevo una cosa che faceva ridere tutti. Insomma, un’amica mi iscrisse a una scuola di recitazione a mia insaputa».
Da lì, molto teatro e, nel 1989, prima particina al cinema con Mario Monicelli.
«Male Oscuro compare nella biografia per vezzo: io stavo nella tromba delle scale e la scena si svolgeva in casa. Monicelli neanche lo vidi».
Però vide Bruno Corbucci.
«Avevo speso anni per pulire la dizione e mi scelse per parlare dialetto lucano nella serie Classe di ferro, su militari di leva di tutte le regioni. La puntata di cui ero protagonista andò in onda poche ore prima che mio padre morisse. Stava male da tempo, io e mamma decidiamo di vedere la tv con papà di là. Fu una commozione strana, come fosse seduto con noi».
Poi, un corto di cui era protagonista e in cui recitava in dialetto, «Senza parole» di Antonello De Leo, fu candidato agli Oscar.
«Non volli andare a Hollywood e quella notte staccai il telefono, anche per una specie di modestia o di sano realismo».
La svolta arriva con Leonardo Pieraccioni?
«Fu il primo ruolo da protagonista, con lui ho fatto sei film, ma la svolta viene quando Giovanni Veronesi mi presentò a Pieraccioni: mi aveva visto suonare la chitarra a una festa. Con lui, poi, ho fatto quattro film e abitiamo anche vicini».
Su Instagram, sul set dei tre moschettieri, vi scatenate in canti e balli con Valerio Mastandrea e Pierfrancesco Favino.
«Lei non sa che privilegio lavorare coi miei attori preferiti e pensare pure che sono amici».
Tre film da regista, un quarto in arrivo. Da quanto covava progetti da regista?
«Tutto nacque per caso: avevo appuntamento con Rita Rusic, ai tempi moglie di Vittorio Cecchi Gori. Nell’andare a casa loro vivo un’odissea metropolitana che diventa un aneddoto che racconto alle cene. Enrico Lucherini disse: devi farci un corto e, a una premiazione, invita sul palco Cecchi Gori, che non sapeva niente, dicendo che produrrà il mio primo corto. Lo girai e così mi morse la tarantola di fare il regista».
Che successe nel tragitto fra le due case?
«Io abitavo al Pantheon e dovevo andare a Viale Platone. Decido di prendere un taxi, provo a prelevare ma il bancomat era scaduto. Allora, mi faccio prestare una bici, ma sullo stradario non erano segnate le altimetrie, la salita era pesante, la scalo. Arrivo in cima e la strada s’interrompe a un cancello. I passanti mi dicono di fare un giro diverso, era tutta salita, annaspo, sudo. Avevo diecimila lire in tasca, fermo un taxi, mi porta su, la strada è chiusa, torna giù, i soldi finiscono, mi ritrovo al punto di prima: scavalco il cancello e cado in una giungla, mi faccio largo fra i rami, precipito su una specie di rupe, atterro nel viale di casa Cecchi Gori in condizioni pietose e in ritardo. Rita, però, era più in ritardo di me».
Da lì, arriva «Basilicata Coast to coast».
«Mi ha permesso di approfondire il legame con la mia terra, conoscevo solo i paesi vicini a casa. Sono stato prima a New York che a Matera. Ho scoperto un Dna comune col mio popolo: un modo di vivere un po’ modesto, discreto, in cui si cerca di non dar fastidio al prossimo».
Le fece più piacere il David per miglior regista esordiente o per miglior musicista?
«La risposta la dà la statua conservata: miglior musicista, l’altra l’ho data ai produttori. La musica rimane la mia vena principale».
Tentò pure Sanremo ma non la presero.
«Morandi mi disse che non volevano attori in gara. L’anno dopo mi chiamarono per affiancarlo e dissi: vengo, però voglio cantare la canzone che non mi avete preso l’anno scorso».
Un momento memorabile del Festival?
«Partiamo dal fatto che Morandi era il mio idolo. Arrivo a Bologna per andare a Sanremo con lui, scendo dal treno e c’era proprio lui che mi aspettava. Resto basito, penso: ma come, Morandi sta qua come uno normale. Poi mi dice: dobbiamo passare da casa di Adriano Celentano. Altro mio idolo. Entro in un mondo: il mondo di Celentano, con lui che ci fa vedere il suo studio di registrazione e quello dove aggiusta gli orologi. E mi colpisce per quanto è dolce: non me l’aspettavo da uno così stravagante. Se c’è una cosa che non ho dismesso è la fascinazione per le star come le guardavo da giovane. Non mi sono mai sentito collega».
Si riconosce nel monologo sulla donna ideale che è «la brutta che ti piace e tu gli piaci»?
«La bellezza è una suggestione che subisco, ma la cosa principale è che una donna devo aver voglia di ascoltarla».
In un’intervista, disse che il momento più alto della sua vita affettiva era stato con la sua ex moglie. È rimasto quello il momento alto?
«Sì, perché abbiamo avuto un figlio che è il mio centro sentimentale. Ho pure continuato a portare la fede. Però a destra. È un simbolo: se non ci fosse stato il figlio, non la porterei, ma c’è, e questo fa di noi un trio».
La fede non scoraggia le nuove fidanzate?
«Immagino di sì, tant’è che non sto con nessuna, ma se m’innamorassi ancora la toglierei».
Cos’è «Scordato», sua prossima regia?
«Posso dire poco, sto ancora montando. Parla di un accordatore di pianoforti che non è accordato col contesto, c’è una ragione e il film è una vita stonata. Mi sembra il mio film migliore».
Come le è venuto in mente di far recitare la cantante Giorgia?
«Perché sono innamorato di lei platonicamente. Ho sempre pensato che avesse una grossa carica di umanità. Vedevo in lei potenzialità da attrice per il sorriso che ha. Avevo ragione».
Al momento, lei è accordato o scordato?
«Non accordatissimo. Faccio fatica in questa fase storica così confusa. Infatti, sono in tournée con Peachum, una rilettura dell’Opera da tre soldi di Brecht, ora che il capitalismo sembra sia la ragione principale della nostra società».
Sui social, spesso, posta poesie. Un verso per chiudere quest’intervista?«Uno da Piaceri di Brecht: un lungo elenco in cui mi ritrovo. Finisce così: scrivere, piantare, viaggiare, cantare, essere gentili».