La Stampa, 15 dicembre 2021
La scomparsa del ragionevole dubbio
La Tecnica è infinitamente più che Tecnica e Scienza, astratta dal contesto economico e politico in cui opera, è una pura idea, forse già dal tempo di Euclide. La ricerca scientifica è l’anima del progresso tecnico che a sua volta lo è dello sviluppo economico, e il loro sistema plasma e modifica la nostra cultura, le nostre visioni del mondo, le forme di vita. Nel giudicare tale sistema e il modo del suo procedere, «complottisti» e cantori della Scienza come Verità incorrono nel medesimo pregiudizio vetero umanistico: che le cose accadano sulla base di calcoli e progetti saldamente in mano a un Soggetto “armato” di tutte le informazioni necessarie e di tutti i mezzi per realizzare i propri piani. C’è da una parte il grande Vecchio “cattivo” e dall’altra l’Ego o super Ego “buono”, quello del puro Sapere.Il primo, fortunatamente, è facile da demolire, il secondo va invece criticato – ed è affare assai arduo, anche se tutta l’epistemologia contemporanea si regge su questa critica, e cioè sull’analisi dei limiti statistico probabilistici della scienza, limiti che rendono assai evanescente lo stesso confine tra scienze esatte e scienze congetturali. La scepsi che interroga, dubita, esige chiarezza dovrebbe, secondo questo metodo, essere intrinseca a ogni affermazione scientifica, ognuna dovrebbe presentarsi da sé come dubitanda.In momenti di grande crisi come quelli che viviamo è quasi inevitabile avvenga invece il contrario. L’esigenza di uscirne al più presto e il bisogno biologico di sicurezza producono una prepotente domanda di certezze, che però si può mutare molto rapidamente in richiesta di asserzioni risolutive, innegabili. Ciò che è per sua natura complesso viene allora ridotto a uno, semplificato all’osso. Ogni ragionevole dubbio diventa semplicemente un ostacolo alla decisione.Il pensiero critico, e cioè scientifico, non dovrebbe che opporsi, secondo i suoi stessi principi, a una simile tendenza. Ma avviene che a volte non lo faccia, o solo in qualche sua minoranza, e per motivi oggettivi, che prescindono dalla buona o cattiva fede dei singoli. Se la crisi non è governata anzitutto in sede politica, attraverso l’azione di un autorevole comando politico, è inevitabile che la domanda di risposte “oltre ogni dubbio”, di certezze assolute (passaggio illogico dal certo al Vero!), sia rivolta al Tecnico e allo Scientifico. Essi si trovano allora investiti di un ruolo del tutto improprio di “sostituti” del governo politico – o, più precisamente, quest’ultimo, per la sua debolezza, per la fragilità della sua costituzione, si maschera dietro il sapere tecnico, ne sollecita risposte univoche e riduce la propria azione di contrasto della crisi( “resilienza” si usa oggi dire), che avrebbe dovuto avere carattere sistematico, a una sola delle componenti di quest’ultima. D’altra parte, in situazioni analoghe, non può non crescere la tentazione nella comunità scientifica di svolgere funzioni generali di direzioni e di potere.Sono processi e intrecci che nessuno decide a tavolino, che nessun Soggetto stabilisce, pre-ordina o pre-vede. C’è però dato esserne coscienti e comprendere che questa crisi già presenta tutti i tratti di un autentico mutamento culturale. Pensarla come una parentesi, chiusa la quale si tornerà a vivere più o meno come prima, è musica da organetto.La crisi costituisce una formidabile accelerazione di una grande trasformazione in atto da decenni, per il cui compimento, senza di essa, ci sarebbe voluto chissà quanto e chissà a che prezzo. La società contactless è oggi non solo ammessa, ma anche desiderata. La formidabile riorganizzazione del lavoro sociale cui allude timidamente lo smart working si può generalizzare senza soverchi contrasti.Il social distancing non è un lapsus, è un simbolo – e l’uomo è un animale simbolico. Sono tutti termini che esprimono una visione del mondo, che è quella dei grandi sistemi dell’informazione, della comunicazione, della logistica, che è quella dei vari Bill Gates che hanno parlato durante la pandemia come fossero a capo di un governo mondiale. E a pieno diritto, poiché le loro imprese, come le grandi multinazionali del Big Pharma, hanno accumulato in questi ultimi anni profitti così immani, da renderli protagonisti a tutti gli effetti dei futuri equilibri geopolitici.Noi tutti siamo “operai” all’interno di questo sistema – ma nient’affatto “classe operaia”. Siamo individui desiderosi di “immunità” e non di “comunità”, la “fabbrica” dove operiamo è disseminata per le nostre case, sempre più efficacemente connesse, consumatori e fornitori di essenziali documenti per chi deve produrre il nostro stesso consumo. Rifornimento gratuito e che nessuno ci pagherà mai, poiché appunto, in quanto individui, assolutamente privi di sindacato o di ogni altra forma di rappresentanza. La neutralizzazione del conflitto è fattore essenziale di questa visione. Il conflitto, infatti, cessa di avere qualsiasi ragione d’essere quando la decisione è in mano alla competenza tecnica, al detentore della Verità – e, d’altra parte, come può nascere un conflitto se le possibilità materiali di una organizzazione vengono meno? La critica solitaria non è conflitto, bensì mera testimonianza. Le politiche di biosecurity svolgono una funzione imprescindibile nell’addomesticamento dei comportamenti sociali.Questo scenario, assai più che probabile, è vissuto dalle élite politiche del Vecchio Continente con sovrana incoscienza (a differenza dei capi e degli strateghi delle grandi potenze economico-finanziarie), con poche eccezioni, Macron forse, la Merkel.La grande nebbia Covid, in cui navigano Scientia duce, permette loro di coprire di tutto e di più – dall’infinito rimando dell’agenda sull’unità politica europea, alle questioni di un nuovo Welfare sociale, a quelle drammatiche dell’occupazione giovanile, della scuola, della formazione. La biosecurity è diventata la cosa prima e ultima, anche per chi in gioventù aveva letto Benjamin e Adorno e ora sembra non avere altra cura che di aggiungere qualche anno alla propria vita. —