il Giornale, 15 dicembre 2021
L’altro Roland Barthes
Cos’è uno scandalo (L’Orma editore, pagg. 225, euro 20) di Roland Barthes è assai più di una raccolta di scritti finora inediti in Italia del maggior critico francese del ’900. È la rara occasione di poter leggere Barthes dal difuori del mito che lo ha avvolto. La traduzione attenta di Filippo D’Angelo accompagna bene una scelta di testi senza imbottitura, che spaziano dal 1933 (con un Barthes diciottenne) al 1980, anno della sua morte.
La lunga successione cronologica, unita allo statuto di scritti minori, ci consente di cogliere un cammino intellettuale intimamente tragico, diverso da quello della vulgata (anche editoriale) di un Barthes sempre e comunque maggiore, protetto, innalzato dalla schiera dei suoi cultori a Figura Intoccabile del ’900.
Il libro è bellissimo anzitutto per la ragione contraria. Dopo un esordio che ci presenta un Barthes liceale, non molto diverso da tutti i liceali brillanti del mondo, e dopo una prima esibizione sul Gide diarista (i diari sono una vera ossessione francese), ecco un Barthes non ancora trentenne in forma smagliante ne Il piacere dei classici, piccolo capolavoro dedicato alla reticenza del testo classico.
«Affermare che i classici sono eterni è un luogo comune molto diffuso. Lo sono, ma per una ragione diversa da quella che si pensa: lo sono non tanto per aver trovato la verità, ma per averla detta bene, ossia in forma incompleta, che è un abile modo di rispettarla. Non bisogna confondere la chiarezza e la completezza».
Di pochi anni più tardi (1951) è il suo primo saggio sul grande storico Jules Michelet, nel cui pensiero tragico Barthes si è specchiato forse più che in qualsiasi altro autore (escluso, forse, Proust).
Questo primo Barthes colpisce per la libertà dell’intelligenza, per la coincidenza quasi miracolosa tra oggettività e personalità. La trattazione trattiene sempre l’appunto, l’intelaiatura sistematica non esclude il lampo, il guizzo: anzi, lo richiede come parte essenziale.
Seguono alcuni testi ancora sorprendenti, come la rilettura de Lo straniero di Camus, vero inno alla potenza della Letteratura contro le riduzioni ideologiche. Ma qui la forza dello scrittore si affievolisce man mano che si va verso gli anni Sessanta, gli anni del Barthes guru, profeta, gli anni tristanzuoli dell’uomo più intelligente di Francia in cui, nonostante il prestigio crescente, lo scrittore si sistema sulla scia dittatoriale di Sartre.
È un’epoca disseminata di colpi di genio e di felici intemperanze, che medicano un po’ lo schematismo di un uomo che si trova, suo malgrado, nella posizione di alfiere della Modernità. Il prestigio lo immalinconisce. Molte delle sue parole restano vittime dell’eccesso di teoria che le racchiude, si avverte una rigidità, un dogmatismo. In questa fase rubrichiamo: un intervento un po’ esibizionista (ostentata marginalità) su Matisse e sulla retorica che lo circonda in occasione della sua morte; divagazioni sui Diari di De Gaulle, sulla definizione di «scandalo» a partire da un fatto di cronaca, sul rapporto autore-personaggio nell’opera di Proust.
Ma questo è il Barthes prevedibile, che cova una profonda insoddisfazione di sé, cui alcune esperienze a loro modo estreme – come alcuni viaggi in Giappone e nella Cina maoista – daranno una prima scossa. Risorge allora, tra le righe, l’ombra esistenzialista, kierkegaardiana, di Barthes, il suo bisogno di affrancarsi dalla «cultura» (che è ideologia) per dedicarsi alla «letteratura», sua prima e unica vocazione, vera questione di vita e di morte.
Bellissime le pagine del ’73 in appendice alla sua opera più misteriosa, Il piacere del testo, dove l’autore ci ricorda, con garbo, che la letteratura è fatta di pieni e di vuoti, di gravità e di futilità, e che l’una cosa non è meno importante dell’altra: «mirare a un altrove che sia dentro».
Un bisogno d’innocenza muove le pagine finali: le ferite, gli errori, il tempo perso sono lì: nuovi dolori si aggiungono. Vengono le pagine più belle di tutto il libro, intitolate Cronaca, dove Barthes, giorno per giorno, segna i fatti che lo commuovono, i soli che egli consideri tali. Esistono fatti refrattari a ogni racconto, come quello del ladro catturato grazie a un passante che gli fa lo sgambetto: «c’è una nobiltà del racconto – scrive – per cui esso può narrare i grandi tradimenti, ma non le meschinerie della brava gente».
Qui Barthes parla di frutta di stagione (siamo agli albori dell’era globale), della mania giapponese di fare fotografie che poi non saranno riviste («far svanire l’immagine a beneficio della sua cattura»), sul rapporto con il medico («il discorso medico intimidisce, ma è anche per questo che è così comico»), su Nureyev, dapprima non riconosciuto, e così via.
Insomma, qui, a differenza che nel corpus barthesiano edito e ben conosciuto, l’uomo (e quindi lo scrittore, con le sue necessarie intemperanze) prevale sull’intellettuale e lo illumina di luce nuova. E ci regala una delle più belle definizioni di «letteratura» che siano mai state date. Sembra scritta oggi, e ha quarant’anni.
«Accettiamo i particolarismi ma non le singolarità, i tipi ma non gli individui. Creiamo (astuzia finissima) cori di singoli, dotati di una voce rivendicatrice, stridula e inoffensiva. Ma l’isolato assoluto? Quello che non è (ossia: non si definisce come) bretone, né corso, né donna, né omosessuale, né pazzo, né arabo ecc.? Quello che non appartiene nemmeno a una minoranza? La sua voce è la letteratura, che con un rovesciamento paradisiaco, riprende magnificamente tutte le voci del mondo e le mischia in una sorta di canto che può essere udito solo se ci si allontana di molto per ascoltarlo».
Altre menti sue contemporanee sono state forse più potenti della sua, da Michel Foucault a Jurij Michajlovic Lotman. Ma nessuno meglio di Barthes ha saputo mettere in gioco nella Letteratura tutto il proprio essere-uomo: fino alla morte. E nessuno, se non lui, ci ha ricordato che leggere è «riscrivere il testo dell’opera con il testo della nostra vita», senza censurare quanto di tragico quest’azione comporti per chi la compie.